Pubblicato il 20/12/2017
Pino Ninfa è uno dei fotografi di jazz (e non solo) più riconoscibili in Italia, per tratto, luce e quella sensibilità speciale che rende i suoi soggetti unici e indimenticabili. L’interesse per la musica e per il sociale, tratti distintivi dello stile di Pino Ninfa fin dall’inizio della sua attività, nel suo ultimo lavoro, “Racconti Jazz”, si fondono perfettamente.
Partiamo proprio da “Racconti Jazz”: meglio la parola scritta o l’immagine per raccontare una storia?
“Con questo libro ho voluto sperimentare la contestualizzazione delle mie fotografie attraverso la parola, pur consapevole di non essere uno scrittore. Il mio uso della parola è molto vicino al parlare quotidiano, infatti, mentre attraverso la mia sensibilità visiva riesco a essere più personale nel trovare storie da raccontare agli altri e a me stesso”.
Quali sono i “Racconti” che ricordi con più chiarezza e quelli con maggiore sentimento?
“I racconti che sono rimasti chiari dentro di me sono quelli che non sono riuscito a fotografare per diversi motivi: per esempio perché non avevo con me la mia macchina fotografica o perché non ero pronto nel momento in cui accadeva una situazione da catturare. A volte, durante un concerto, mi è successo di aver voglia di ascoltare solo la musica senza fare fotografie, anche se alcuni casi sul palco accadeva qualcosa di interessante da fotografare. Queste sono le foto che non fanno parte del mio archivio, ma sono conservate nella mia memoria.
I racconti che ricordo con più sentimento, invece, sono gli innumerevoli ritratti che gli artisti mi hanno concesso di fare. Spesso la loro disponibilità e collaborazione per realizzare una buona fotografia ha fatto nascere rapporti e storie importanti di cui sono molto orgoglioso, e che nel tempo sono diventate anche amicizie all’insegna di un sentimento semplice ma profondo”.
Il jazz contemporaneo si lascia raccontare?
“Si lascia raccontare eccome! Sta ai fotografi coglierne la forza per andare al di là, se possibile, della ‘foto documento’. Il jazz, soprattutto oggi, è una musica aperta a mille contaminazioni e sfumature, sta ai fotografi saperle cogliere con le proprie fotografie.
A volte mi sembra che si equivochi il raccontare con il pubblicare tante foto di un avvenimento. È come se lo stesso brano di jazz, anziché sentirlo una volta, venisse ripetuto più volte nella stessa serata; alla fine, probabilmente, non susciterebbe più alcun interesse in chi ascolta. Lo stesso vale per le foto: tante foto non sono un modo migliore di rappresentare un avvenimento”.
Le tue fotografie sono reali istantanee di un tempo che continua a vivere oltre l’immagine, hanno respiro, parola, sentimenti: segui un processo creativo, una fonte di ispirazione o c’è una base di improvvisazione?
“Mi fa piacere la tua definizione perché è proprio quello che cerco con il mio fotografare: creare azioni che non si esauriscano ma che abbiano la forza di contenere storie e emozioni che durino nel tempo. Ho sempre cercato di fotografare con l’idea di realizzare storie; il mio processo creativo è figlio delle molte contaminazioni, dall’arte alla letteratura, che compongono il mio sapere quotidiano.
Le mie fonti di ispirazione comprendono l’amore per la lettura, la visione delle foto altrui, il cinema, e naturalmente visitare le mostre di ogni epoca e stile.
La chiave del mio lavoro è sicuramente l’improvvisazione, che è anche ciò che amo del jazz. Ormai ho imparato a distinguere i musicisti che hanno qualcosa di interessante da dire, e che arriva direttamente al cuore e alla mente, rispetto ad altri che invece mettonoo insieme solo una serie di note”.
Il rapporto con gli eventi dal vivo: una giungla dalla quale i fotografi riescono a salvarsi?
“In questo momento il settore della fotografia musicale, e jazz in particolare, subisce molte difficoltà di tipo economico, a cui va aggiunto il problema del grande numero di persone che fanno questo mestiere come secondo, terzo lavoro lavoro, se non come hobby. Una situazione che nel tempo ha penalizzato il settore fotografico. Sono pochissimi oggi i festival che pagano un fotografo, mentre quando io ho iniziato era la norma. Non parliamo dei club che peraltro fanno una fatica incredibile a far quadrare i propri bilanci. Credo che manchi da parte del fotografo una proposta alternativa, il saper trovare risposte in un momento complesso e difficile come questo. Saper fare buone foto non basta, oggi le macchine digitali aiutano chiunque dando la possibilità di ottenere buoni risultati senza una grande preparazione tecnica e artistica.
Per quanto mi riguarda credo che andrebbe evitato l’atteggiamento abbastanza diffuso di lavorare gratis per anni e cercare poi di farsi pagare. Mi sembra evidente che non funziona. Insomma il futuro ha bisogno di un’identità più matura per quanti decideranno di fare questo lavoro”.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
“Sto completando un lavoro dedicato alla foresta Amazzonica che parla di sostenibilità e salvaguardia dell’ambiente, insieme alla condizione dei suoi abitanti. A febbraio ritornerò anche in Eritrea. E poi ho altri progetti in cantiere e naturalmente non perdo di vista i festival jazz, per continuare il mio progetto”.