Pubblicato il 01/03/2019
Tornano a marzo (15 e 28) gli appuntamenti fiorentini dedicati alle parole nel jazz e del jazz con la programmazione di “Scrittori in jazz”, la rassegna di incontri tra letteratura e jazz, con scrittori, critici musicali e addetti ai lavori che scrivono di jazz in romanzi, saggi e altre forme letterarie ideata dall’Associazione Music Pool. Un programma che, grazie a un format innovativo e accattivante, apre le porte non solo agli appassionati di jazz ma a un pubblico etereogeno composto da amanti della musica tout court, lettori, musicisti, “affamati” di storie e Storia.
Il primo ospite dell’iniziativa (15 marzo) è Enrico Bettinello, che abbiamo incontrato per una breve intervista. Enrico è direttore della sede di Venezia dell’Istituto Europeo di Design, giornalista, critico, scrittore, membro del board di Europe Jazz Network, curatore e consulente nell’ambito della progettazione, direzione artistica e organizzazione culturale, in particolare nei settori della musica e delle arti contemporanee.
Il tuo “Storie di jazz” è una guida sentimentale alla vita e alla musica di alcuni dei più famosi (o meno) jazzisti della storia: ma quali sono stati i sentimenti che ti hanno guidato in questo percorso, in questa scelta?
“Il libro nasce da una rubrica che tenevo per la rivista BlowUp e per la quale, ogni mese, sceglievo liberamente un jazzista da raccontare, sia nelle sue vicende musicali che umane.
La scelta non è mai stata dettata da un piano preciso, ogni mese sceglievo in base agli ascolti del momento, alla curiosità, alla voglia di riascoltare massicciamente un artista. Nel libro questa libertà è stata riproposta ed è appunto “sentimentale” proprio perchè riflette il modo in cui noi ci accostiamo alla musica, alle persone, magari per caso, magari perchè qualcuno ci suggerisce un ascolto, poi succede che per mesi ascoltiamo un jazzista e poi dopo si fa indigestione e per anni non lo si riascolta più… in fondo oltre che a una leggerezza “letteraria” questa cosa fa riferimento anche alla voglia che il lettore prosegua trovandone di sue, di storie di jazz.
Per quanto riguarda i sentimenti personali, poi, beh, per quasi tutti i musicisti trattati c’è un grande amore, di vecchia data o meno; e anche per alcuni rari casi in cui non avevo una grande passione per il jazzista trattato, immergermi nel suo mondo me lo ha reso qualcuno di famiglia”.
Quali sono invece le tue “storie di jazz”, cioè gli incontri che ti hanno lasciato un segno in questi anni nel settore?
“In ormai quasi vent’anni di vita professionale nel jazz, come critico, curatore, direttore artistico e progettista, ho avuto il privilegio di incontrare e vivere molti momenti con un numero inimmaginabile di artisti. Tutti questi incontri lasciano un segno, ma se vogliamo citarne qualcuno direi che sicuramente il più illuminante è stato con Peter Kowald, con il quale avevo stretto un rapporto molto intenso che si è interrotto per la sua prematura morte e che mi ha insegnato davvero ad aprire la mente. Poi citerei Rob Mazurek, uomo di straordinaria intensità, Giancarlo Schiaffini e Franco D’Andrea con cui ho studiato a Siena tanti anni fa, un uomo dolcissimo come Erik Friedlander e, negli ultimi anni, le due personalità che considero più rilevanti nel jazz europeo, Alexander Hawkins e Eve Risser”.
Quanto è importante, soprattutto oggi, raccontare il jazz o, meglio, ciò che succede nel jazz soprattutto italiano?
“Raccontare quello che succede è sempre importante, perchè testimonia, mette in circolazione, ipotizza identità da condividere. Da critico e studioso ho provato a ritagliarmi negli anni – anche grazie alle prospettive che mi venivano dalle altre mie attività – un punto di osservazione che fosse sempre mobile e che fornisse così alla narrazione una certa tridimensionalità. Da qui le analisi e le inchieste su come si muove e si struttura tutto il mondo del jazz in Italia, insieme alle analisi dei dischi, dei concerti e alle interviste.
Oggi in Italia, come in tutta Europa, il livello qualitativo dei musicisti è molto alto. Se a questo aggiungiamo che la disaffezione delle generazioni più giovani verso i rituali più stanchi del “jazz” si unisce a un disinteresse generazionale per le definizioni, ci troviamo di fronte a uno scenario vivacissimo e al tempo stesso molto fragile, che credo vada raccontato e costruito insieme ai protagonisti stessi. Troppo spesso, anche in Italia, si vive solo di “quella volta che…”, di rancori che si cercano di esorcizzare nei curricula con sterili elenchi di collaborazioni e lodi ricevute. Raccontare quanto queste musiche possano avere una carica di consapevolezza quotidiana, oltre che di piacere dell’ascolto, è una cosa di cui non mi sono ancora stancato”.
Sei l’unico membro italiano del board di Europe Jazz Network: cosa e quanto dobbiamo ancora imparare dal resto dell’Europa e quali sono, invece, i nostri valori aggiunti?
“In questi anni di lavoro a servizio di Europe Jazz Network sto imparando prima di tutto io molte cose. Credo che progettare e dialogare a livello europeo sia una risorsa preziosa per qualsiasi nazione, sia quelle più ricche e fornite di sostegni all’espressione artistica come quelle del Nord Europa, sia quelle come l’Italia che ancora devono fare molta strada in questo senso. Poi in fondo molti problemi sono comuni, come la difficoltà di fare circuitare i musicisti giovani (che non è un problema solo tricolore, eh…) o la necessità di svecchiare il pubblico.
Bisogna dedicarci tempo, avere orecchi e cuori aperti, essere pronti a mettersi in discussione anche in aspetti che sembrano granitici. Su queste cose il jazz italiano ha ancora un po’ di cammino da recuperare.
Quanto ai valori aggiunti, sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo musicisti eccellenti, molti festival qualitativamente rilevanti e il vantaggio di potere sviluppare un rapporto con la cultura di un territorio che già ribolle di bellezza. Diciamo che non partiamo certo con le carte peggiori”.
Programma al link: italiajazz.it/attivita/festivals-e-rassegne/scrittori-jazz