Pubblicato il 15/05/2018
Quasi al termine dell’edizione 2018 di Vicenza Jazz, abbiamo incontrato il direttore artistico della rassegna, Riccardo Brazzale (mente e conduction della Lydian Sound Orchestra, oltre che compositore e musicista di valore indiscusso) per parlare delle rivoluzioni del jazz: quelle che ci siamo lasciati alle spalle e quelle che questa musica vive oggi, tra mille contraddizioni e speranze.
23 edizioni di Vicenza Jazz, una storia lunga ma sempre nuova: com’è cambiata, se è cambiata la natura del festival e come gli ultimi anni di crisi, o meglio di cambiamento, hanno inciso?
“Credo che Vicenza Jazz possa avere una sua identità dovuta a diversi fattori. In tutti i casi il primo di questi ritengo sia riscontrabile nel rapporto davvero unico fra questa nostra musica, così contemporanea, e i luoghi classici dove essa viene proposta: palazzi-monumento come il Teatro Olimpico, la Basilica Palladiana, Palazzo Chiericati, tutti frutto del genio architettonico palladiano. E poi, senza voler essere un festival chiaramente votato e legato a ciò che comunemente si ritiene essere musica d’avanguardia, siamo sempre stati tutto sommato non vicini a scelte mainstream, per quanto si sia sempre cercato di rispettare i gusti più ampi e diversi del pubblico, e pur restando nell’alveo di quel che crediamo sia da intendersi come jazz.
Cos’è cambiato negli anni? Una volta potevamo permetterci più idee nuove, quanto a produzioni originali e a prime nazionali; oggi bisogna stare molto attenti, molto più che un tempo, nella gestione dei bilanci, perché da una parte, prima ancora che quelli artistici, sono aumentati i costi relativi all’organizzazione, all’amministrazione e alla promozione; dall’altra il jazz resta una musica tutt’altro che a divulgazione popolare, poco attrattiva anche per sponsor e finanziatori capaci di guardare solo al risultato immediato. Fermo restando che il massimo decisore resta il pubblico e, molto più che un tempo, con il pubblico vanno intrattenuti rapporti continuativi, per farci accreditare come interlocutori affidabili.”
Il programma quest’anno si è aperto con una celebrazione importante e non scontata: “The Birth of Youth”, il ’68, l‟anno delle rivolte giovanili e dell’esplosione dei movimenti: in che modo avete raccontato questa ricorrenza?
“Il concetto fondamentale ha ruotato intorno all’idea e all’importanza della gioventù, una categoria che in fondo è quasi nata o per lo meno rinata nel ’68. Così ci siamo posti alcune domande. Per esempio: chi erano nel jazz i giovani nel ’68 e che musica facevano? Chi erano i maestri di quei giovani? Chi sono oggi i figli del ’68? Cosa fanno nel jazz, invece, i giovani del secondo decennio del XXI secolo? Perché poi, a conti fatti, il jazz resta una musica per non-giovani. O così almeno sembra a guardare in faccia, uno per uno, chi viene ai concerti. Insomma, in questo maggio vicentino abbiamo raccontato l’idea di gioventù e di richiesta di libertà, attraverso il jazz.”
Quali jazzisti hanno impersonato più di altri, secondo te, la rivolta giovanile e la rivoluzione culturale?
“Anche nel jazz, nel ’68 si cercava maggiore libertà, e in varie direzioni. La vera chiave di volta stette probabilmente nella convinzione di aver trovato quella libertà cambiando certe regole del linguaggio della tradizione; tuttavia, quasi paradossalmente per un linguaggio di sperimentazione, nel farlo il jazz capì che poteva persino incontrare più pubblico, specie il pubblico dei giovani. Più di tutti lo capì un maestro che amava circondarsi di giovani: Miles Davis, che nel ’68 aveva già 42 anni e che al primo brano di “Filles de Kilimanjaro” fa attaccare la batteria su Frelon Brun con un approccio jazzisticamente così poco ortodosso che forse solo il ventitreenne Tony Williams poteva permettersi di fare. Ma nel ’68 avevano 23 anni anche Keith Jarrett e Anthony Braxton: se ci si riflette la rivoluzione culturale aveva davvero tante facce.”
E oggi quale “rivoluzione” stiamo vivendo?
“Dispiace dirlo, davvero, ma oggi di rivoluzione non se ne vede davvero neanche l’ombra. Eppure ce ne sarebbe tanto bisogno. Oggi non abbiamo dei Martin Luther King da piangere, ma abbiamo tanti morti nelle frontiere del Mare Nostrum o di qua e di là di muri che speravamo di non dover più vedere. Se nel ’68 qualcuno avesse profetizzato che, cinquant’anni dopo, la parte più progressive della società sarebbe stata spinta dai magistrati o dal Papa, l’impressione sarebbe stata di essere dentro a un romanzo di Philip Dick. Invece no. Oggi i poteri forti sono molto più invisibili e più forti di un tempo e servirebbe un’idea quantomeno di non assuefazione, prima ancora che di rivoluzione.
Qualche giorno fa, l’etichetta Parco della Musica Records ha fatto uscire l’ultimo cd della Lydian Sound Orchestra che si intitola “We Resist!”: qualcuno penserà di esser tornati indietro, magari nel ’68, proprio alla morte di Luther King. Invece non abbiamo proprio bisogno di nostalgia ma di essere vivi, nel senso più completo del termine.”
La domanda di rito: qual è lo stato di salute del jazz italiano?
“Credo che il jazz italiano stia vivendo un momento di vitalità incredibile: la parola jazz e quindi i suoni del jazz si possono incontrare nei posti più diversi. In un certo senso non può esser casuale che in Italia oggi sia nata una federazione di soggetti che operano, ognuno a proprio titolo, nel mondo del jazz. Poi, tocca dirlo, non può essere oro tutto quel che luccica: manca da sempre una cultura vera che comprenda una conoscenza autentica di questa musica e della cultura e dei linguaggi che le sono propri. Oggi c’è una quantità di proposte, fra chi suona, chi organizza, chi produce, chi scrive, chi insegna, chi insomma vive grazie al jazz, che non solo non corrisponde a qualità ma che pure spesso genera confusione.
Ma questo è, bene o male, uno dei derivati del nostro tempo: oggi chiunque si propone come professionista di questa nostra musica (come peraltro avviene in altri campi, senza che questo sia un mal comune e men che meno un mezzo gaudio) e, verrebbe da dire, chiunque improvvisa. Potrei anche aggiungere che chiunque si arrangia e chiunque arrangia. Sì, c’è molto da fare e credo che ognuno di noi, che si tratti di promoter o di musicisti, di insegnanti o di giornalisti, debba fare di tutto per lavorare con la massima professionalità. I risultati non potranno che venire.”
Giulia Focardi