Pubblicato il 05/07/2018
“Un festival lungo 26 anni”: mancano pochi giorni all’inizio di Fano Jazz By The Sea, rassegna attiva dal 1993 nella cittadina marchigiana, e per raccontarvelo in maniera approfondita abbiamo raggiunto Adriano Pedini, direttore artistico di Fano Jazz Network e mente (instancabile) del festival stesso.
Raccontaci questa edizione del festival che si presenta prima di tutto con una veste green.
“Per rispondere a questa domanda devo fare una premessa che riguarda la mia formazione. Appartengo a una generazione che ha avuto la fortuna di vivere intensamente le stagioni musicali di fine anni ’60 e ’70 in cui la musica era un fenomeno strettamente connesso alle dinamiche sociali intese come scelta di vita; chi l’ha vissute sa di cosa parlo.
Ho sempre pensato che un festival, di qualsiasi natura esso sia, non possa e non debba essere una mera rappresentazione di un fenomeno “linguistico”, o ridursi a semplice intrattenimento. E in particolare un festival jazz – per tutto ciò che il jazz rappresenta anche in termini di valori sociali, come sostiene l’Unesco – non può esimersi dal trovare e sviluppare forti legami con il nostro vissuto, con la complessa contemporaneità.
La scelta green era nella mia mente da tempo e da un paio di anni, grazie alla possibilità di utilizzo di una location suggestiva come la restaurata Rocca Malatestiana e la presenza del Village, il nostro festival ha sposato la causa della sostenibilità e dell’ecologia mettendosi “in sintonia” con l’ambiente. Abbiamo adottato un disciplinare Green Fest: allestimenti realizzati con materiali ecocompatibili, eliminazione dell’uso della plastica, uso della carta ecologica, installazione di un dispenser per “Acqua Free”, mobilità sostenibile a favore delll’uso della bicicletta, food a Km 0, ecc.
Ma green in senso lato è anche la scelta di ospitare, sempre all’interno del Village, un Campus musicale rivolto a bambini e ragazzi dai 6 ai 16 anni, finalizzato alla costituzione di un’orchestra per “giocare/suonare” con l’improvvisazione e i linguaggi musicali che stanno alla base di tutta la musica contemporanea. È anche un modo per formare il pubblico di domani.
Tutto questo e molto altro ci permette di condividere la campagna di comunicazione europea “Take A Stand” (Prendi Posizione). E’ il momento che i festival dimostrino di essere qualcosa di più di un semplice divertimento, che si assumano responsabilità sociali, promuovendo valori universali”.
Grandi nomi italiani e internazionali: nel programma ci sono Mehldau, Iyer, Stanley Clarke, Dee Dee Bridgewater ma anche Paolo Fresu, Simone Graziano, Daniele Di Bonaventura, solo per citarne alcuni. Come hai lavorato sulla programmazione? Cosa ha indirizzato le tue scelte?
“La formazione del cast artistico è sempre fonte di gioia e dolori: in effetti se da un lato forte è il desiderio e la soddisfazione di promuovere la musica jazz nelle sue componenti artistiche più alte, dall’altro le difficoltà e le complessità organizzative unite a una precarietà di risorse rendono la vita di noi organizzatori alquanto complicata.
Ormai da diversi anni ho impostato la programmazione artistica su tre sezioni, ognuna della quali racconta il caleidoscopico mondo del jazz e della musica creativa contemporanea, evitando autoreferenzialità o pretese di indicare cos’è il jazz oggi.
Sono nate così la sezione Main Stage: il “luogo”, prima ancora che il palcoscenico, dove si incontrano artisti di rilievo internazionale, testimoni e nel medesimo tempo artefici di una musica in costante movimento, in continua trasformazione, memore del suo glorioso passato e nel contempo con i piedi ben saldi nel presente e lo sguardo proteso verso il futuro. La sezione Young Stage: un “piccolo” palcoscenico che si trasforma in preziosa occasione per presentare nuovi gruppi e nuovi lavori discografici, nonché testare le proprie proposte davanti a un pubblico in grado di apprezzarne i contenuti artistici. Un impegno concreto per il sostegno e la valorizzazione dei giovani musicisti italiani emergenti, fautori di visioni musicali originali che testimoniano la vitalità del jazz italiano
La terza sezione, che si ricollega al nostro vissuto, è “Exodus: Gli echi della migrazione”: dei solo concerts ospitati nella splendida cornice della Pinacoteca San Domenico, momenti di riflessione, non solo sonora, su una delle problematiche cruciali della società occidentale. Il jazz, musica di migrazione per antonomasia, può essere un veicolo atto a sensibilizzare e diffondere un messaggio di solidarietà, oggi più che mai indispensabile”.
C’è una grande interazione con il territorio che ospita e organizza il festival: quali sono le reali ricadute?
“Quando ho iniziato più di ventisei anni fa l’esperienza del festival, nel nostro territorio il solo parlare di jazz era considerato velleitario, improponibile. Oggi, invece, grazie alla tenacia di tutto il gruppo di lavoro di Fano Jazz Network, il progetto, che ha nel festival la sua punta di diamante, è diventato una delle proposte culturali più rappresentative della città di Fano e del suo territorio.
Nel tempo sono nate le rassegne “Jazz ‘in Provincia”, itinerario jazzistico nei teatri storici della provincia di Pesaro Urbino, in collaborazione con 15 comuni della provincia; la rassegna “Jazz Club”, arrivata alla XXII edizione e dedicata al giovane jazz italiano. Sono poi nate esperienze didattiche diffuse, sorti altri due jazz club e si sono costituite ben quattro Big Band e formazioni allargate all’interno delle scuole medie e superiori. Insomma, una miriade di associazioni musicali fa riferimento alla nostra esperienza; si sono formate professionalità nuove e siamo stati fra i fondatori della rete regionale Marche Jazz Network. Tutto ciò senza parlare delle ricadute economiche, legate al turismo culturale, che il festival è stato in grado di generare. E il futuro ci riserva altre novità: a partire dalla Casa del Jazz, un progetto realizzato dall’architetto designer Italo Rota e che abbiamo pensato come luogo di Produzione – Promozione – Ricerca – Documentazione – Residenze Artistiche, collegato con tutti gli eventi prodotti da Fano Jazz Network. Un sogno che si sta realizzando!”.
Come direttore artistico hai visto dei cambiamenti nel corso di questi anni sia a livello di pubblico che dal punto di vista artistico?
“Innanzitutto vorrei ribadire un concetto che vado ripetendo da tempo e cioè che, se pur nominato direttore artistico, preferirei essere definito ‘organizzatore’. Ritengo che per fregiarsi del titolo di “direttore artistico” occorra essere messi in condizioni tali da espletare le funzioni che sono proprie di questo delicato ruolo, come un’adeguata disponibilità economica e tempi di programmazione certi. Forse un giorno chissà, ora non è così.
Per quanto riguarda il pubblico, pur potendo contare su una buona affluenza grazie a uno zoccolo duro di appassionati fedelissimi, siamo convinti che ci sia ancora un buon margine di crescita, nonostante la tendenza generale che indica delle sofferenze su questo aspetto.
Il cauto ottimismo sull’affluenza ci viene da un lavoro di analisi sul pubblico, che stiamo facendo con la collaborazione dell’Università di Urbino. La ricerca conferma che il nostro è un pubblico che viene da fuori città per il 70%, di cui un 12% in crescita dall’estero (a oggi abbiamo prenotazioni dalla Germania, dall’Olanda, dalla Francia, dall’Inghilterra) e che ci si viene in larga parte per scelta. Su questo aspetto stiamo lavorando, potenziando una comunicazione più mirata, tempestiva e virale.
C’è comunque un dato preoccupante che riguarda il ricambio generazionale del pubblico: non saprei se per colpa nostra che non sappiamo intercettarei nuovi bisogni e dare risposte adeguate, ma sta di fatto che i giovani sono generalmente poco inclini a farsi coinvolgere. Credo quindi che occorra mettere in campo nuove forme di proposte, più innovative, munirsi di strumenti comunicativi più efficaci, più vicini al sentire giovanile.
Dal punto di vista artistico trovo che a fronte della scomparsa delle grandi figure di riferimento che hanno fatto la storia del jazz, si stanno facendo strada artisti “locali” che seppur con forti legami con la tradizione, sviluppano interessanti forme musicali, legate ai propri territori ricchi di linguaggi dai forti tratti distintivi, che io reputo essere una ricchezza per tutto il movimento jazzistico”.
Il jazz italiano: qual è il suo stato di salute secondo te?
“Ero presente un paio di anni fa alla Casa del Jazz di Roma, dove si presentava il nuovo sito di I-Jazz, e l’allora ministro della Cultura Dario Franceschini, esordì dicendo che, numeri alla mano, occorreva che le Istituzioni preposte chiedessero scusa a tutto il jazz italiano per averlo per troppo tempo ignorato e sottovalutato, e di quanto importante fosse per qualità, diffusione e risultati ottenuti. E, in effetti, in questi ultimi anni il jazz italiano ha avuto uno scatto d’orgoglio, dimostrando di esser propositivo e in ottima salute.
Questo, è bene ricordarlo, grazie al prezioso lavoro dell’Associazione I-Jazz e del suo instancabile presidente Gianni Pini, che in pochi anni è riuscito a mettere insieme la stragrande maggioranza dei festival e rassegne di jazz, con significative ricadute anche economiche per tutti noi operatori. Nondimentico il grande lavoro svolto sul giovane jazz italiano dall’Associazione dei musicisti Italiani-MIDJ, guidata da Ada Montellanico; dalla neonata Associazione dei Jazz Club Italiani; e infine dalla Federazione del Jazz Italiano voluta da Paolo Fresu in rappresentanza di tutti gli operatori del settore. Significativo a questo proposito è il Protocollo d’intesa firmato con Il Ministero dei Beni e delle attività culturali dove le parti si impegnano “nel perseguire obiettivi strutturali che vadano a implementare la conoscenza della cultura jazzistica – riconosciuta quale patrimonio comune e momento di crescita del pubblico e dei musicisti – e ne promuovono lo sviluppo e la crescita costante”
E come non citare il successo avuto con la grande mobilitazione di tutto il jazz italiano per la ricostruzione dell’Aquila e delle Terre del Sisma, un esempio di capacità organizzativa e di solidarietà uniche, che solo con una forte coesione nel perseguire obiettivi comuni si può essere capaci di progettare e governare.
Sul versante prettamente artistico condivido quanto ormai è di dominio pubblico e cioè che il jazz italiano ha raggiunto standard qualitativi al pari di quei paesi europei più istituzionalmente attrezzati. Certo, il lavoro da fare ancora è tanto, ma le premesse perché il jazz Italiano possa definitivamente conquistare quel ruolo che gli spetta nel panorama culturale nazionale, e non solo, ci sono tutte.
W il jazz!”.
Giulia Focardi
Link al programma del festival http://www.italiajazz.it/attivita/festivals-e-rassegne/fano-jazz-sea