Pubblicato il 18/12/2018
Parlare di Paolo Fresu significa correre il rischio di essere ripetitivi. Fresu non lo puoi descrivere, è necessario fermarsi a vivere le sfumature della sua arte, quelle che caratterizzano così bene sia il musicista che l’uomo rendendolo uno dei personaggi più positivi della cultura italiana, con il risultato che, a ogni conversazione, ad ogni incontro, ne usciamo ogni volta arricchiti. Uno dei musicisti italiani più conosciuti al mondo, grazie alla sua musica, ai suoi dischi (anche come produttore e discografico), ai suoi ruoli istituzionali (è presidente della Federazione Nazionale “Il Jazz Italiano”), alle sue scelte artistiche, ai suoi progetti trasversali (come la produzione teatrale “Tempo di Chet”), al suo encomiabile festival (Time in Jazz nella sua Berchidda), ai suoi libri (ultimo “Poesie jazz per cuori curiosi”, ed. Rizzoli). La voce del jazz italiano a 360° che qui ci racconta il suo 2018, e non solo.
2018: anno di grandi cambiamenti per il jazz italiano. Un tuo personale bilancio?
Un bilancio positivo. La nascita della Federazione Nazionale il Jazz Italiano ha dato una grande spinta sia alla crescita della nostra musica sia al coagulo delle realtà associative che ne fanno parte. Ciò mostrando un bisogno di reciproca comunicazione e una finalità di intenti tesa alla crescita di tutto il comparto e con azioni di sistema che nascono dalle rispettive associazioni in coordinamento con la Federazione.
Parliamo con il Paolo Fresu direttore artistico: Time in Jazz è uno degli esempi più longevi di festival italiani. Qual è il segreto di questa lunga vita?
Credo che il segreto sia la passione. Ovviamente anche la professionalità e un territorio, quello del nord Sardegna, che si presta all’accoglienza senza la quale passione, però, Time sarebbe in Jazz un festival come tanti. E’ la sua originalità – nella proposta artistica ma soprattuto nei luoghi e nel ricreare una atmosfera unica – a farne un festival diverso e passionale. Possiamo anche dire che, pur mantenendo una dimensione internazionale, sia un festival sempre più concentrato sul jazz italiano oltre che sulla sulla natura green che ci inorgoglisce.
Come musicista sei molto impegnato in questa nuova avventura teatrale, “Tempo di Chet” (prod. Teatro Stabile di Bolzano): come è andata la prima fase del tour e cosa significa per te questa esperienza?
Ero spaventato dall’idea di un lavoro nuovo, con dinamiche e tempi molto diversi da quelli della attività concertistica. Tre settimane di prove e tre mesi di impegno. La prima fase del tour è andata benissimo e siamo tutti molto contenti. Perché “Tempo di Chet” è un lavoro serio e onesto che trova una grande attenzione da parte del pubblico che è numeroso, entusiasta e commosso. Inoltre, grazie al rapporto artistico e umano con Dino Rubino e Marco Bardoscia siamo riusciti a realizzare un cd prodotto dalla mia Tǔk Music, un risultato che ci sembra poetico oltre che una bella dedica a Chet Baker. Un disco che, tra l’altro, non è in commercio e viene venduto solo all’uscita dello spettacolo in teatro, e ha raccolto su Spotify oltre 700.000 ascolti in soli 40 giorni. Numeri da musica pop che possono solo fare piacere e, soprattutto ben sperare per il jazz.
A febbraio scorso è nata la Federazione Nazionale Il Jazz Italiano, che attualmente presiedi: cosa è stato fatto e cosa c’è da fare ancora in termini di lavoro in rete?
Ovviamente il lavoro da fare è ancora tanto ma, guardando a ritroso, molto è stato fatto. La Federazione si è ufficialmente costituita il 13 febbraio di questo anno – suggerendo anche la nascita delle associazioni dei jazz club, delle etichette discografiche e delle agenzie – e solo dopo una settimana ha firmato un protocollo d’intesa con il MiBac e l’allora ministro Dario Franceschini. Negli ultimi quattro anni si è instaurato un importante percorso di collaborazione con il MiBac che ha portato a un Bando strutturale dedicato al jazz italiano, alla nascita dell’esperienza del Jazz italiano per le Terre del Sisma, all’organizzazione dell’International Jazz Day, alla nascita del portare ItaliaJazz e molte altre attività.
Il primo passo della Federazione è stato l’organizzazione del convegno nazionale “Il Jazz va a Scuola” con l’obiettivo di mappare le realtà presenti nel territorio italiano che si occupano di didattica jazz nei nidi, nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria. Inoltre, stiamo spingendo affinché nasca nei primi mesi del 2019 un’associazione specifica che si possa occupare di questi argomenti e che possa afferire alla Federazione come sesta realtà associativa. E’ in corso un dialogo con il MIUR, tramite il Comitato per l’apprendimento pratico della musica presieduto dal Prof. Luigi Berlinguer, con l’obiettivo di promuovere una Giornata nazionale del jazz nella scuola alla fine di aprile, forse in concomitanza con l’International jazz Day.
Stiamo anche partecipando a un Bando pubblico incentrato sui temi dell’infanzia, dell’inclusività sociale e delle diversità. Un Bando condotto dall’associazione I-Jazz in fitto dialogo con la Federazione. Abbiamo anche presentato un progetto dedicato ai giovani, in collaborazione con Umbria Jazz, e incontrato il ministro Bonisoli. A febbraio, insieme a tutte le realtà che formano la Federazione, abbiamo in programma un confronto con i vertici della Siae.
Qual è lo stato di salute del jazz italiano?
Buono. Direi ottimo dal punto di vista creativo. Qualcuno prende medicinali omeopatici e altri antibiotici di ultima generazione ma, in alcuni casi, sono ancora le strutture ospedaliere a fare acqua…