Pubblicato il 02/11/2020
Il nuovo appuntamento della rubrica curata da Corrado Beldì, presidente della Associazione I-Jazz, ha come protagonista Roberto Bonati: musicista, compositore, direttore d’orchestra, direttore artistico e cuore di ParmaFrontiere. Il festival, che aveva preso il via a metà ottobre, ha subito la brusca interruzione a causa del nuovo Dpcm che ha previsto la chiusura dei teatri e delle sale concerti. Beldì lo ha intervistato per parlare della situazione ma anche della storia del festival, dei progetti in cantiere e di un futuro che dobbiamo necessariamente tornare a vedere in maniera positiva.
Partiamo dalla ripartenza: come sarà il programma 2020?
“Siamo stati prontissimi e già questa estate, appena è stato possibile, abbiamo fortemente voluto ripartire con tre concerti di anticipazione del festival. C’era e c’è un grande desiderio e un bisogno di ritrovare un senso della comunità attraverso il rituale del concerto, della performance dal vivo. Il programma preparato è tutto italiano. Come è nella filosofia del festival abbiamo messo in campo alcune produzioni originali, alcuni concerti dedicati alle nuove generazioni, la formazione e alcune ospitalità. Abbiamo aperto con due concerti al Teatro Farnese : “For a While”, il lavoro orchestrale di Gianluigi Trovesi dedicato all’opera, e il debutto del mio Stabat Mater con la ParmaFrontiere Orchestra. Abbiamo poi proseguito alla Casa della Musica con il trio di Stefano Battaglia, il trio di Federico Calcagno – assegnatario del premio Gaslini 2020 – e il gruppo “Silent Waters” di Francesco Fiorenzani, Fabrizio Ottaviucci. Avevamo in progrmma anche Enrico Pieranunzi, il concerto al Teatro Regio dedicato ai giovanissimi con le musiche dei film di Walt Disney, il laboratorio di Andrea Grossi con gli studenti del Liceo Musicale Bertolucci, Anais Drago in solo, Pericopes+1, il mio solo Vesper and Silence in co-produzione con il festival Il Rumore del Lutto, il solo di Marco Colonna e una serie di presentazioni di libri curata da Alessandro Rigolli e due conferenze di Luca Perciballi, tutto rinviato al prossimo anno, proprio in questi giorni, a causa delle più recenti restrizioni dovute alla pandemia”.
Come si legano le vostre attività con Parma 2020 Capitale Italiana della Cultura?
“Nel 2017 ci è stato chiesto dall’assessore Guerra un progetto da inserire nel dossier di candidatura a “Parma Capitale Italiana della Cultura”. Ho presentato “La Fòla de l’oca/Over Time” un lavoro sul Tempo, con la creazione di una orchestra europea di giovani musicisti provenienti da prestigiose accademie europee”.
Raccontaci qualcosa della storia del festival: quando e perché nascono le attività di ParmaJazz Frontiere?
“Nel 1995 io abitavo ancora a Milano e insegnavo Jazz al Conservatorio di Parma. L’assessore di allora, Luigi Allegri, mi chiamò per fare la direzione artistica di una rassegna che intitolai “Piano &…” quattro concerti di pianisti in duo con un altro strumentista. Invitai Pieranunzi e Rava, Battaglia e Fasoli, Salis e Luppi e D’Andrea con il sottoscritto. La rassegna andò molto bene, tanto pubblico e bella musica quindi proposi all’assessore di creare un festival e lui si mostrò stuzzicato dall’idea ma avanzò il problema economico. Mi disse però che se si fossero trovati i denari sufficienti ne avremmo riparlato. Qualche mese dopo feci richiesta di un contributo alla Fondazione Monte di Parma il cui presidente, l’avvocato Walter Gaibazzi, era particolarmente sensibile ai progetti culturali e in particolare alla musica. Era il momento in cui le fondazioni bancarie dovevano cambiare regole smettendo di elargire contributi a pioggia e iniziando ad investire su progetti che potessero avere un futuro. La mia proposta di creazione di un nuovo festival dedicato al jazz e alle musiche improvvisate arrivò nel momento più favorevole e fu così che nel 1996 iniziammo l’avventura del festival che fu amministrato, per i primi cinque anni dal Teatro Regio, e poi, nel 2001, quando le ragioni della politica cambiarono ci rendemmo indipendenti e fondammo l’associazione ParmaFrontiere che da allora gestisce il festival e tutta l’attività.
Questa è la storia dal punto di vista burocratico ed amministrativo. Ma tutto ciò ha avuto profonde motivazioni artistiche. Negli anni precedenti avevo avuto la possibilità di suonare nei maggiori festival europei e di respirare un’aria fresca, internazionale, venendo a contatto con tanti musicisti, organizzatori, manager, maturando un grande desiderio di promuovere le musiche di “frontiera”. Soprattutto la volontà di creare un organismo di produzione musicale, un posto dove i musicisti potessero lavorare liberamente, dove si potessero favorire gli incontri, il dialogo con le altre forme artistiche, la danza, il teatro, la fotografia, la pittura, il cinema mettendo in relazione i diversi linguaggi, attraverso le molteplici tradizioni che formano la contemporaneità e la interpretano in uno slancio verso il futuro. Non un festival di vetrina museale ma un laboratorio vivo e qui si inseriscono i due cardini di Parma Frontiere: la produzione e la formazione. Volevo un festival che fosse un seme e che gettasse radici nella città, non un “evento” ma una realtà che diventasse parte della tessuto culturale della città e del paese.
Parma ha una scena culturale molto viva, ci sono molti teatri, molte realtà culturali e sono spesso realtà di produzione. Credo fermamente che la produzione sia una attività che caratterizza un festival, una organizzazione culturale e questo volevo che fosse ParmaJazz Frontiere”.
Come siete organizzati dal punto di vista dello staff e chi sono i vostri sostenitori?
“Quando abbiamo fondato, nel 2001 ParmaFrontiere, abbiamo preso un ufficio e da allora ci sono alcune persone che lavorano tutto l’anno. Oggi abbiamo due persone, Sara Zanotti e Sophie Wolski, che si occupano di amministrazione e di organizzazione, durante il festival anche un responsabile di produzione, Luca Perciballi, e un direttore di palcoscenico, Giacomo Marzi. Poi c’è il lavoro importante e fondamentale di alcuni soci in particolare del vice presidente Alberto Ferretti. Abbiamo convenzioni con il Comune e la Regione, La Fondazione Monte di Parma ci sostiene dalla creazione del festival e, da alcuni anni, anche la Fondazione Cariparma è entrata a far parte dei nostri partner. Come privati abbiamo solo la famiglia Dallara per il concerto della Stanza per Caterina”.
Come sta cambiando il vostro pubblico? Quali azioni per il futuro?
“Il pubblico è sicuramente cambiato, c’è uno zoccolo duro che ci segue da tanto tempo e ci sono molte persone nuove che frequentano il festival. Ma oggi c’è una grande confusione nella comunicazione: le persone sono spesso confuse e frastornate da una comunicazione a tappeto nella quale si è perso il senso della reale portata delle proposte. La politica eventistica e il mercato che si è venuto a creare non favoriscono di certo la politica culturale dei festival di ricerca.
Abbiamo avuto momenti molto difficili nella nostra storia ma, grazie al lavoro appassionato e alla qualità dell’offerta, siamo ancora qui dopo venticinque anni. Negli anni abbiamo creato dei rapporti internazionali, soprattutto con molte realtà e scuole del nord Europa, e credo che questa strada delle co-produzioni sarà importante nei prossimi anni. Siamo attualmente partner nel progetto “The Jazz Workshop” che vede coinvolte le scuole di Oslo, Glasgow, Hamburg, Nurnberg, Parma e cinque festival ElbJazz, Nue Jazz, Oslo Jazz festival, Edinburgh Jazz Festival per la creazione di cinque ensemble orchestrali di giovani musicisti-compositori che lavorano insieme per alcuni mesi e producono un concerto che viene presentato nei festival. C’è stato un finanziamento per tre anni dalla UE attraverso un bando di Strategic Partnership. È la prima volta che accade una cosa del genere nel campo del jazz, cinque orchestre di giovani musicisti coordinate e seguite da docenti dei vari conservatori che per tre anni hanno la possibilità di presentare il loro lavoro in prestigiosi festival grazie a contributi europei. Sono orgoglioso di questa possibilità, è bellissimo lavorare insieme a un team di così alto livello. Per il futuro vogliamo proseguire nelle co-produzioni internazionali e aumentare il numero di produzioni originali”.
Ci racconti un vostro concerto indimenticabile?
“È difficile scegliere…Tutti i concerti sono stati indimenticabili, forse i concerti della Stanza per Caterina, uno spazio che abbiamo dedicato, insieme alla famiglia, a Caterina Dallara, una amica e sostenitrice del festival che è mancata alcuni anni fa. Il primo concerto fu di Barry Guy con Maya Homburger con la partecipazione di Maddalena Crippa che leggeva liriche da Engellieder di Rilke. Fu un momento molto intenso e da allora la Stanza per Caterina è diventato un po’ il cuore intimo del festival”.
E invece un concerto che non rifaresti?
“Preferisco evitare ricordi spiacevoli”.
Chi è stato il tuo grande eroe del jazz e per quale motivo?
“Ho avuto nella mia formazione molti eroi e sono, come tutti noi, i grandi musicisti della storia del jazz e potrebbe essere una lunga lista ma gli eroi vivono un po’ nella realtà degli eroi e allora per venire a noi credo che per me siano stati importanti soprattutto alcuni musicisti, che ho avuto la fortuna di incontrare e che sono stati per me dei Maestri, Bruno Tommaso, Giorgio Gaslini, Gianluigi Trovesi, artisti coi quali ho avuto ed ho un sodalizio molto forte, musicale e umano. Uomini della musica a tutto tondo, dal pensiero aperto, senza confini”.
Puoi condividere con noi una grande soddisfazione e un grande rimpianto di questi anni?
“Per quanto riguarda il festival il fatto di essere ancora attivi dopo 25 anni e aver superato tante difficoltà – a volte per la sopravvivenza – è una grande soddisfazione. Per quanto riguarda il mio percorso di musicista l’aver percorso una strada mia, l’aver creduto in quello che sono state le mie scelte musicali e il fatto di averle perseguite con onestà verso me stesso. E non ho rimpianti, alle volte le cose avrebbero potuto avere una soluzione più semplice ma non rimpiango le mie scelte”.
Ci descrivi una immagine a cui sei molto legato?
“Un color field di Rothko o l’annunciazione di Beato Angelico a San Marco a Firenze”.
Rispetto al tuo percorso da musicista, ci racconti i tuoi prossimi progetti musicali?
“Ho recentemente finito di comporre e presentato il mio Stabat Mater con la ParmaFrontiere Orchestra e voglio pubblicare il disco. Ho, in fase di missaggio, un cd registrato lo scorso anni in duo con Tor Yttredal, saxofonista norvegese. Ho due impegnativi impegni di composizione per il 2021: una commissione dalla città di Worms per Il Rogo della Fenice, A musical reflection on conscience and freedom of speech in occasione della mostra e delle celebrazioni per il centenario di Lutero e il progetto La Fòla de l’Oca/Over Time per Parma2020/21.
Tornando a ParmaFrontiere, cosa significa fare il direttore artistico di un festival?
“Concepisco l’idea di un festival come un laboratorio e credo che la responsabilità di un direttore artistico sia quella di dirigere, di dare un indirizzo al proprio lavoro, assumendosi i rischi che questo comporta. Cercare di presentare ciò che si ritiene possa rappresentare la complessità dell’oggi, i diversi percorsi della contemporaneità. Credo che un festival debba cercare e presentare le possibili strade che dalla tradizione ci portano verso il futuro senza ammiccare alle mode, al di fuori delle accademie vecchie e nuove”.
Ci racconti un socio I-Jazz che ti piace per la sua programmazione?
“Molti dei soci hanno programmi interessanti, in generale privilegio quelli più avventurosi che hanno un senso del rischio, che non si preoccupano solo di fare il tutto esaurito”.
Ci segnali tre nomi interessanti nel panorama del giovane jazz italiano?
“Federico Calcagno che è quest’anno l’assegnatario del Premio Gaslini, Andrea Grossi con il suo lavoro orchestrale e Luca Perciballi in particolare col suo lavoro in solo”.
Quali azioni dovremmo dare per portare più musicisti italiani nel mondo?
“Da una parte servono figure professionali di manager che credano nel jazz italiano, che condividano le scelte artistiche dei musicisti, e si impegnino a promuoverli sulla scena internazionale, dall’altra parte servirebbe un realtà export con contributi statali per avere i viaggi pagati e agevolazioni di varia natura”.
Una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
“Favorire le residenze e le nuove produzioni credo siano progetti importanti. Sviluppare un sistema di co-produzione in modo che i concerti possano essere veicolati tra i soci. Di grande importanza è anche la formazione dei giovani e giovanissimi e lavorare su progetti che vedano generazioni diverse lavorare insieme.
Oggi vedo spesso una separazione tra le generazioni di musicisti. I bandi per gli under 35 sono una cosa molto positiva ma rischiano di separare le generazioni mentre c’è una storia del jazz italiano che ha un suo fil rouge importante”.
Se il Ministro Franceschini ti dicesse: “posso esaudire un tuo desiderio”, cosa gli chiederesti?
“Di avere la possibilità di dare una maggiore stabilità agli ensemble orchestrali che ho creato: la ParmaFrontiere Orchestra e la Chironomic Orchestra”.
Ph: Gianni Grossi