Pubblicato il 06/10/2020
Continua la rubrica a cura di Corrado Beldì, presidente dell’Associazione I-Jazz, e dedicata al lavoro dei singoli soci. Una intervista a settimana per dare voce e spazio ai direttori artistici, alle rassegne e festival che fanno parte della rete nazionale. Questa settimana è il turno di Gianni Azzali, musicista, compositore, direttore artistico del Piacenza Jazz Fest oltre che presidente dell’Associazione Piacenza Jazz Club. Con una stagione iniziata da poco e che prosegue a ritmo battente, Azzali ci racconta cosa è successo in questi ultimi mesi e i nuovi progetti in vista.
Iniziamo dalla ripartenza: Piacenza Jazz è stata la prima a fermarsi ma ora riparte: con quale programma?
“Sì, in effetti siamo stati travolti dalla pandemia e dalle relative ordinanze sanitarie solo qualche giorno prima dell’inaugurazione, une vera tristezza che si è sommata alle ingenti perdite economiche dovute ad anticipi agli artisti, mai rientrati nonostante la “forza maggiore” prevista in contratto e la promozione, che già viaggiava a pieno ritmo.
Il programma di questa edizione autunnale, che abbiamo definito “reloaded” prevedeva inizialmente sia artisti italiani e americani; una scelta un po’ rischiosa in questo periodo incerto. Ci abbiamo creduto un’altra volta, ma abbiamo dovuto modificare in corsa il cartellone a causa dell’annullamento di tre tour internazionali. In compenso abbiamo costruito secondo me un ottimo programma, tutto italiano, ad eccezione dello “Standards Trio” del chitarrista Kurt Rosenwinkel che, risiedendo in Germania, avrà meno difficoltà logistiche degli artisti d’oltreoceano”.
Come si sostiene il festival, chi sono i principali sponsor e come siete organizzati internamente?
“Il festival nasce sulla base di una vera associazione culturale ben 17 anni fa. Il Piacenza Jazz Club conta oggi oltre settecento soci. Su una solida base come questa, sono nate diverse iniziative, come il club “Milestone”, che programma jazz per 8 mesi l’anno e il Piacenza Jazz Fest.
Il nostro vero “main sponsor” è la Fondazione di Piacenza e Vigevano, una fondazione nata da una banca oggi non più esistente, ma che continua ad operare in favore dei bisogni della città di Piacenza. Fortunatamente, negli anni, anche altre istituzioni ci hanno “notato” e sostenuto, come la Regione Emilia-Romagna e il patrocinio del Mibact. Anche il Comune di Piacenza negli scorsi anni ci sosteneva e incoraggiava, ma purtroppo oggi non più.”
Raccontaci qualcosa della storia del festival: quando e perché nasce Piacenza Jazz?
“Il tutto nasce da un SMS di un amico musicista piacentino che mi propone di organizzare concerti jazz in città. Qualcosa è scattato, ma io stavo partendo per un lungo soggiorno “musicale” nella capitale francese e la cosa è finita lì. L’anno successivo, al mio rientro, l’idea si è fatta largo nella mia mente ed è diventata contagiosa per diversi musicisti e appassionati, tanto che nel giro di un mese, oltre quaranta persone hanno firmato la nascita dell’associazione. Era il 2003”.
Come sta cambiando il pubblico di Piacenza Jazz?
“Il pubblico del festival e del club è un “bel pubblico”, come lo definisco spesso gli artisti che ospitiamo. Un pubblico attento, interessato e aperto, che negli anni ha subìto una “educazione” spontanea e importante”.
Un vostro concerto indimenticabile?
“Sicuramente nella mia memoria è stampato il nostro primo concerto “grosso”, cioè vale a dire il primo concerto che ci ha fatto crescere in quanto abbiamo avuto a che fare con una contrattualistica importante, forti spese un notevole “rischio d’impresa”. Si tratta del quartetto di Wayne Shorter che organizzammo al Teatro Municipale di Piacenza (900 spettatori paganti). Furono due giorni per me indimenticabili. Ricordo che al termine del tutto, recuperando la mia auto in un parcheggio pubblico, piansi dalla tensione e dalla gioia che l’evento mi procurò”.
Invece un concerto che non rifaresti?
“Per noi la musica è certamente importantissima, ma forse lo sono di più le persone che la fanno. Il mio è un lavoro, ma sulle basi di una forte passione (sono anche sassofonista). Questo fa sì che noti e apprezzi maggiormente l’animo dei musicisti, forse prima della loro musica. So che non è artisticamente corretto, ma lo è eticamente e soprattutto umanamente. Quindi i concerti che non rifarei sono quelli legati a musicisti umanamente molto carenti. Il più odioso di tutti fu il sassofonista Kenny Garrett nel 2017…mai più!”.
Ci racconti chi è stato il tuo grande eroe del jazz e per quale motivo?
“Difficile individuarne uno solo, ma se devo farlo, nomino nuovamente Wayne Shorter, un musicista straordinario che ho sempre seguito con estremo interesse e che ha influenza in maniera decisiva anche il mio modo di suonare”.
Se tu invece dovessi descrivere una grande soddisfazione e un grande rimpianto di questi anni?
“La grande soddisfazione è veder crescere anno per anno il Fest e il Club, sentire attorno a sé la soddisfazione dei volontari e del pubblico e toccare con mano che stai facendo una bella cosa per il tuo Paese. Gli unici rimpianti sono legati a musicisti che avrei voluto o vorrei ospitare, ma che per varie ragioni (economiche o peggio, per la loro scomparsa) non mi è stato possibile”.
Ci descrivi una immagine a cui sei molto legato?
“È un’immagine che mi ritrae a fianco del grande Jerry Bergonzi, con il quale ho avuto la fortuna di studiare nel ’95 a Boston. Fu un’esperienza unica, sia le sue lezioni, che l’immersione di diversi mesi nell’ambiente jazzistico di quella splendida città”.
Avete anche un jazz club che funziona molto bene, ce ne parli?
“Molto volentieri. Ne ho già accennato prima. Il Milestone è una bella realtà, un jazz club portato avanti unicamente dai volontari dell’associazione, che programma musica jazz ogni sabato sera o domenica pomeriggio per 8 mesi l’anno. È dotato di un’ottima e completa strumentazione residente e, a dire di tanti, uno dei più bei club d’Italia”.
Tornando a Piacenza Jazz Fest, cosa significa fare il direttore artistico di un festival?
“È un lavoro stupendo! Significa poter dare forma (quasi sempre) alle tue idee, sia nella scelta delle proposte artistiche, che nel “taglio” del festival, cioè, nel mio caso, anche a tutta quella progettualità socioculturale che chiamiamo “L’atro festival” e che comprende una miriade di piccoli o medi eventi che coinvolgono l’intera comunità piacentina, le scuole, i centri commerciali, le piazze, i club…insomma, per me spesso più entusiasmante che la compilazione del cartellone principale!”.
Nell’ambito della nostra associazione nazionale, c’è un socio I-Jazz che ti piace per la sua programmazione?
“Ce ne sono diversi, ma quello che ho sempre ammirato e apprezzato è Bergamo Jazz per la professionalità con cui viene organizzato e svolto e per le scelte artistiche”.
Puoi farci tre nomi interessanti nel panorama del giovane jazz italiano?
“La cantante Camilla Battaglia, il pianista Francesco Orio e il pianista/batterista Dario Carnovale”.
Quali azioni dovremmo fare per portare più musicisti italiani nel mondo?
“Non ne sono certo, perché non mi sono mai posto questo problema, ma sono convinto che le azioni che sta portando a compimento I-Jazz siano sulla strada giusta”.
Una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
“I-Jazz sta lavorando molto bene e “Il jazz italiano per le terre del sisma” è già un progetto molto vicino ad un’idea che coltivo da alcuni anni, cioè una sorta di festival nazionale che coinvolga tutti i festival e che si svolga ogni anno in un diverso capoluogo di regione, una sorta di “festival dei festival” dove ogni realtà organizzatrice, relativamente alle sue dimensioni e possibilità, possa contribuire agli eventi. Un’iniziativa dal forte sapore nazionale, che non si identifichi su una sola città, ma che mantenga uno spirito collettivo e itinerante”.
Se il Ministro ti dicesse “posso esaudire un tuo desiderio”, cosa gli chiederesti?
“Sicuramente chiederei di dare alla musica jazz in Italia la stessa considerazione e sostegno che hanno altri generi musicali, ma temo che la strada sia ancora lunga”.