Pubblicato il 20/10/2020
Continuano le interviste a opera del presidente di I-Jazz, Corrado Beldì, ai direttori artistici dell’associazione, musicisti, promoter, operatori del settore che danno vita, linfa e respiro alla musica jazz in Italia e non solo. Questa settimana abbiamo raggiunto Roberto Ottaviano, uno dei grandi rappresentanti del jazz italiano, musicista, compositore, uno dei motori e delle menti della rassegna Nel gioco del jazz e direttore artistico del festival Tremiti Music.
Partiamo da Tremiti Jazz, come è nato il festival e che taglio ha?
“Le istituzioni Pugliesi, Regione Puglia, Consorzio per il Teatro Pubblico e Puglia Sounds, di comune concertazione, prendendo atto della esponenziale produzione e rappresentazione del Jazz e delle musiche affini sul territorio, si sono rese conto che nelle azioni a sostegno logistico e finanziario per il comparto Musica programmate dall’Alta Murgia al profondo Salento queste meravigliose isole erano state trascurate. Tre anni fa quindi mi è stato chiesto di presentare un progetto che fosse in sintonia con l’ecosostenibilità di quell’area e con l’idea di integrazione complessiva di scoperta del territorio e turismo culturale. La mia idea è stata quella di non “legare” il percorso musicale ad una etichetta specifica, tant’è che ho chiesto che fosse denominato Tremiti Music Festival piuttosto che Tremiti Jazz Festival, in modo da poter coniugare liberamente progettualità e spettacolarità che comunque tengano conto del Jazz come una specie di timone “garante” del profilo e della qualità delle proposte”.
Ci racconti come nasce la tua attività di organizzatore e cosa farete nei prossimi mesi a Bari?
“In realtà non mi definisco né organizzatore né Direttore Artistico, ma piuttosto uno che in collaborazione con chi ha competenze specifiche ed acclarate, cura la parte musicale delle programmazioni. Tutto questo nasce principalmente dal fatto che ieri come oggi, molte persone spesso a totale digiuno di una prospettiva seria in ambiti specifici musicali, delle esigenze degli artisti, della necessità di evitare modalità partigiane per il raggiungimento di alcuni obiettivi, si improvvisano un mestiere con il risultato che il pubblico scappa, o se va bene non cresce. Per ciò che riguarda l’immediato ci tocca ancora fare i conti con la pandemia. E’ un fenomeno che stiamo ancora attraversando e quindi, pur tra mille incertezze, stiamo provando a ipotizzare misure e strategie anche alternative ai concerti. In questo momento stiamo modulando l’idea di streaming evitando in buona parte la prevedibile riproduzione dei live, ma piuttosto impiegare questa tecnologia mettendo a contatto autori e pubblico attraverso un racconto più articolato, come ad esempio il nostro progetto “Stupor Musicae” in cui si viaggia nei Castelli Francigeni con delle postazioni affidate a diversi musicisti e con il coinvolgimento di alcuni attori. Con il progetto Urbis del Comune di Bari invece porteremo la musica con installazioni e con un legame al mondo dei libri nelle Biblioteche. Infine la programmazione tradizionale dell’Associazione Nel gioco del Jazz, che quest’anno si chiama “Think Positive” , e che potrà contare come sempre sulla presenza di artisti stranieri ed italiani in egual misura, partirà a fine Ottobre facendo i conti con spazi e distanziamento che se erano più gestibili all’aperto, al chiuso vedono un drastico ridimensionamento. Manterremo comunque il nostro target intorno ai 200 spettatori con possibilità di replica nel caso di richieste maggiori”.
Come sta cambiando il pubblico del jazz? Quali azioni prevedi per il futuro?
“Ma sta cambiando il pubblico del Jazz ? Non saprei. Per me il “pubblico del Jazz” è sempre quello, solo sta diventando gradualmente più attempato, in un equilibrio sempre difficile tra nostalgia e voglia di scoprire qualcosa di nuovo, che poi è nuovo solo per loro e non in assoluto, a piccoli passetti. Esiste poi un pubblico diverso, più giovane e generalista che frequenta e ascolta cose diverse, in modo a volte consapevole ma più frequentemente in modo del tutto casuale, che fa associazioni campate in aria e che spesso scopre l’acqua calda perché non conosce la storia. E’ l’insidia del mondo digitale e della web-fiducia. Strumenti questi di indubbio potenziale ma che vanno governati in modo utile e saggio, sennò diventano un coltello affilato nelle mani di un bambino. L’unica azione possibile per rimettere al centro la musica come anello del DNA collettivo, piuttosto che come ulteriore articolo di consumo è, scusate la banalità, la scuola e chi amministra la cultura. Siamo passati bruscamente dalla cultura statalista (che però aveva un peso oggi inimmaginabile) al drive inn del liberismo e delle tre “i” Berlusconiane. Se ci sono ancora nei quadri intellettuali e politici figure di un certo profilo, di sensibilità e deontologia, questo è il momento per ristabilire i parametri. Altrimenti, come per il clima, ci troveremo in un batter d’occhio in una fase irreversibile”.
Mi racconti un concerto indimenticabile che hai organizzato in questi anni?
“Sono davvero tanti. Penso ai concerti di Laurie Anderson e di Jon Hassell per la prima edizione del festival di Time Zones del 1986, e nei giorni seguenti che furono una vacanza nei nostri mari; oppure a quelli con Charlie Haden col Quartet West o del quartetto di Dave Holland con Steve Coleman e ancora del quartetto di Wayne Shorter o, uno degli ultimi, quello di Charles lloyd. A prescindere dalla bellezza dell’evento in sé penso alla toccante relazione affettiva ed amicale che si è venuta a creare”.
E un concerto che invece non rifaresti?
“Non farò nomi, ma mi è capitato alcune volte di fare dei concerti che avevamo programmato con grande entusiasmo e con grande attesa del pubblico ed invece sono stati disattesi completamente dagli artisti che arrivavano sul palco con supponenza, convinti che qui al sud abbiamo ancora l’anello al naso…..”.
Chi è stato il tuo grande eroe del jazz e per quale motivo?
“Per chi mi conosce una risposta facile potrebbe essere Steve Lacy, che è stato Maestro e che continua ad illuminare la mia strada piena di dubbi e distrazioni. Indubbiamente è stato ed è tutt’ora un eroe, tuttavia dirò che un eroe vivo (e lo è ancor di più perché appartiene a questo paese pieno di contraddizioni e bellezza) è per me Enrico Rava. Enrico incarna, non da ora, il Jazz a cui ho sempre pensato: dinamica, curiosità, sfida, linguaggio, giustizia, riflessività e humour, cultura e riservatezza, tradizione e visionarietà. Il fatto che Rava sia diventato Rava, partendo da qui e approdando al mondo, merita il rispetto di tutti ed uno spazio speciale nel mio cuore. Abbiamo suonato troppo poco insieme, anche se tante volte si è detto che sarebbe stato bello ritrovarsi intorno ad una idea comune, ci sentiamo di rado, ma per me è un esempio”.
Ci racconti una grande soddisfazione e un grande rimpianto di questi anni?
“Soddisfazioni ne ho avute tante, più che altro riconoscimenti inaspettati, che se ti arrivano non da amici ma da estranei che contano, ci credi di più. Il mio più grande rimpianto è che vorrei essere nato vent’anni prima per vivere in pieno gli anni ’50 e ’60, una età d’oro per il Jazz e l’Arte in generale”.
Parliamo dei tuoi progetti musicali, è appena uscito un disco del nuovo quartetto, ce ne parli?
“Sono felice intanto della mia collaborazione con la Dodicilune Records che continua a sostenere le mie idee dopo dodici anni. In quanto a “Resonance & Rhapsodies” ultimo lavoro doppio di Eternal Love ed Extended Love che ne è l’estensione a doppio quartetto, rappresenta un ideale prosecuzione dei miei lavori “Sideralis” (Premio della critica discografica Pino Candini Musica Jazz del 2017) ed “Eternal Love”. Una tappa significativa del mio rapporto con la scrittura e con l’improvvisazione che qui si inseguono senza soluzione di continuità, con meno radicalismo velleitario e più forza comunicativa senza cedere a modelli di musica “piaciona” di cui anche tanto Jazz o pseudo tale di oggi ci racconta”.
Su quali altri progetti artistici stai lavorando? Sogni nel cassetto?
“Non ho mai cessato di fare concerti in solo, e soprattutto in luoghi diversi con cui interagire, e in interplay con altri artisti, fotografi, videomakers, danzatori, pittori e scultori. Un altro progetto cui tengo molto è l’omaggio al progressive inglese degli anni’60 e ’70 “U.K.Legacy”. Abbiamo sempre in piedi il duo con Alexander Hawkins e per un pelo non siamo riusciti a realizzare in Sardegna un bel quartetto insieme a Brad Jones al contrabbasso e il vecchio amico Hamid Drake alla batteria. Ma lo riprenderemo. Quanto ai sogni nel cassetto, sto scrivendo un opera “Sonic Hologram” con un organico piccolo orchestrale, ma con il coinvolgimento di improvvisatori che vengono da altri mondi, due voci liriche ed un attore narrante”.
Tornando alla tua attività di organizzatore, cosa significa fare il direttore artistico di un festival?
“Un Direttore Artistico (e come dicevo prima, io non mi reputo tale, fatta eccezione per alcune rare occasioni che mi sono capitate) deve avere una visione globale del percorso. Deve saper collegare i mondi artistici, con il tempo e con gli spazi, nel senso dei luoghi di rappresentazione e magari sviluppare una estensione ad altri concetti, racconti e riflessioni che sappiano portare i fruitori ad aprire i sensi e comprendere che la musica attinge ad una infinita serie di riferimenti”.
Ci racconti un socio IJazz che ti piace per la sua programmazione?
“Coerenza con quanto ho detto prima vuole che quanto ha costruito Paolo Fresu in Sardegna, ma anche Paolo Damiani con “Una Striscia di Terra Feconda”, siano degli esempi encomiabili, ma conosco bene le problematiche legate alla disponibilità finanziaria, alle peculiarità del territorio, alle specificità logistiche, per non affermare che ognuno fa i conti con quelle che sono le possibilità a disposizione e cerca di farlo al meglio”.
Puoi segnalarci tre nomi interessanti nel panorama del giovane jazz italiano?
“Beh magari non sono più tra i giovanissimi, ma sono tra i più giovani che apprezzo molto: Marco Colonna, Camilla Battaglia, Filippo Vignato”.
Quali azioni dovremmo fare, a tuo avviso, per portare più musicisti italiani nel mondo?
“Il problema è che, fatto salvo qualche caso particolare, i nostri musicisti vecchi e nuovi sono scarsamente conosciuti all’estero. Questa ignoranza ha molte spiegazioni ma non voglio soffermarmi qui ad elencarle. Immagino quindi che prima ancora di coinvolgere propositivamente gli amici ed operatori dei festivals e delle rassegne in giro per l’Europa e nel mondo, bisognerebbe incrementare le occasioni in cui offrire loro materiale di studio e approfondimento per consentirgli una scelta ampia ed obbiettiva. In caso contrario immagineranno che i nomi che rappresentano il nostro Jazz siano sempre quei quattro o cinque. La Europe Jazz Conference di Novara ad esempio è stato un momento topico, da questo punto di vista. Penso inoltre ad una guida “letteraria” integrata da playlists e/o videolists da far circolare. Sarebbe auspicabile, chessò magari una specie di docu-film con qualcuno che racconti quel che succede nella scena attuale, dove l’attuale non coincide necessariamente con l’età anagrafica”.
Una nuova idea progettuale su cui, secono te, dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
“La prima che mi viene in mente potrebbe essere, grazie al suo Comitato Tecnico Scientifico in cui si è parlato di ricerca e sperimentazione, e con la collaborazione di Midj, la produzione speciale e la circuitazione nelle realtà gestite da quei soci che ne hanno la possibilità, di un grande organico a geometria variabile affidata ogni anno ad una diversa Direzione e che si ponga come una specie di “Voyager”, di testimone, che attraverso la musica diventi militante sui temi dell’ecologia, della povertà, della migrazione, della riconversione industriale, della pace. Un orchestra di “Maitre a penser” I Jazz”.
Se il Ministro Franceschini ti dicesse: “posso esaudire un tuo desiderio”, cosa gli chiederesti?
“Una volta mi fu chiesto da un Assessore alla Cultura di andarlo a trovare in Assessorato. Ci andai, e questo, forse immaginando un probabile piccolo bacino elettorale che potevo rappresentare mi disse: “Mi porti un bel progettino ? Abbiamo ancora una certa capienza di fondi….”. Gli risposi che non ero in quell’ufficio per reiterare il solito rapporto questuante a cui avevo sempre assistito, ma che invece mi rendevo disponibile a dare un contributo, attraverso la realizzazione di una mappa su quel che era stato fatto, le progettualità, le necessità, di una filiera che i politici ignorano totalmente, per spendere meglio i soldi disponibili….Secondo voi come è andata a finire ? In questo momento abbiamo la Federazione Nazionale del Jazz Italiano che dovrebbe costituire un organismo innanzitutto morale ed intellettuale nei confronti delle istituzioni. Vediamo se questa potrà essere un giusta risposta, io me lo auguro”.