Pubblicato il 20/01/2021
Il nuovo appuntamento con la rubrica curata dal presidente di I-Jazz, Corrado Beldì, si sposta a Palermo e ha come protagonista uno dei fautori del cambiamento delle politiche musicali anche nei programmi degli enti lirico-sinfonici, nonché personaggio di rilievo del panorama musicale italiano, con specifico riferimento al jazz, di cui ha contribuito a promuoverne la crescita in Sicilia e in Italia: Ignazio Garsia, presidente della Fondazione The Brass Group.
Raccontaci la storia di The Brass Group, quando e perché nasce la vostra istituzione e come si è sviluppata negli anni?
“Il Brass nasce casualmente. Per uno stato di necessità conseguente all’esclusione del jazz dai circuiti musicali d’arte. Verso la fine degli anni ’60 costituii un gruppo di ottoni che chiamai The Brass Group, appunto. Quell’improbabile orchestra jazz, messa su con musicisti di banda, con strumentisti di sale per matrimoni e con qualche nostalgico professore d’orchestra sinfonica, da lì a breve si sarebbe ineluttabilmente sciolta. Senza scritture e senza lavoro per la mia orchestra, nel 1973, non potendo più sostenere le spese della sede (un sottoscala che utilizzavamo per le prove d’orchestra) ritenni che non vi fossero alternative al suggerimento di Irio De Paula: organizzare dei concerti con la Brass Group Big Band. In questo modo avremmo racimolato qualche lira per pagare i canoni di locazione, il condominio e le relative utenze. Ma soprattutto, mi convinse che non avrei sciolto quella big band che per anni sognai di realizzare.
Gli sviluppi sono stati tutti conseguenti al successo di pubblico riscosso in quella cantina fumosa, povera e buia, che vedeva centinaia di palermitani in coda per frequentare quei concerti nell’indifferenza delle istituzioni storiche (atteggiamento che ben presto scomparve). Ecco perché ho sempre sostenuto che la diffusione e il successo del jazz e delle musiche di derivazione afroamericana non è merito di gente come Lucio Fumo, Carlo Pagnotta, Giorgio Lombardi o Pepito Pignatelli, ma demerito delle istituzioni musicali preposte con gli aiuti di stato a un’informazione musicale non rispondente ai bisogni collettivi.
Un’informazione, invero, settaria che per decenni – sia nei conservatori di musica, sia nei teatri lirici e sinfonici – indottrinata da grandi pensatori come Theodor W. Adorno, ha mirato esclusivamente a ritardare il più possibile i processi evolutivi delle musiche dell’altro Novecento.
Poi, Dio solo sa cosa non abbiano fatto le lobby musicali di quel tempo (una in particolare, guidata dal Barone Francesco Agnello, palermitano, allora presidente degli Amici della Musica, dell’AIAC/AGIS – l’AIAM di oggi -, del CIDIM, nonché consulente per la musica dell’allora Ministro Urbani), perché non nascesse, per legge regionale, un’orchestra jazz a partecipazione pubblica.
Il principio di quella lobby potentissima era semplice e condivisibile, dal loro punto di vista: se si apre – nel sistema dei finanziamenti pubblici – una maglia per il jazz (musica commerciale che si finanzia da sé), il modello siciliano si espanderebbe in tutto il Paese (“L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto” Johann Wolfgang von Goethe.) Quelle lobby, quindi, ricorrendo anche ad annunci a pagamento su “La Repubblica”, lanciarono un accorato appello, rivolto ai deputati dell’Assemblea Regionale Siciliana e al pubblico musicale (firmato dai presidenti di tutte le associazioni musicali siciliane, molte delle quali aderenti all’AIAC), affinché il parlamento siciliano non approvasse una legge che desse vita a una fondazione a partecipazione pubblica di produzione di musica jazz.
Questa impari lotta mi costrinse, più volte negli anni, a ricorrere a quegli scioperi che si praticano sul proprio corpo, esponendo la mia persona, incatenata al pianoforte, al pubblico ludibrio in una piazza di Palermo (incluso un ricovero in ospedale per un malore conseguente la settimana trascorsa all’addiaccio nel mese di gennaio).
Lo scandalo fu tale che Renzo Arbore, dall’Istituto Italiano di Cultura di New York, nel corso della conferenza stampa di presentazione del documentario “Da Palermo a New Orleans … e fu subito jazz” intervenne per raccomandare alle forze politiche d’intervenire per non disperdere un patrimonio (il The Brass Group) che da diversi anni era, oramai, patrimonio di tutti i siciliani. Grazie anche agli interventi di Stefano Bollani, Paolo Fresu, Roberto Gatto, Enrico Rava e diverse centinaia di musicisti, e grazie anche a decine di concerti e manifestazioni di protesta, articoli di stampa ecc…, il progetto divenne legge (1 febbraio 2006, n. 5).
Sempre a proposito di sviluppo, una delle imprese straordinarie che si ascrivono al Brass negli anni ’70, è avere irradiato la musica jazz nell’intero territorio regionale. Creando, prima diverse sezioni staccate, e poi delle associazioni concertistiche autonome nelle città di Catania, Messina, Trapani, Siracusa, Ragusa, Castelvetrano e Acireale (il Brass di Alcamo nacque spontaneamente). Che, mantenendo la denominazione The Brass Group assunsero per il jazz lo stesso significato che hanno le associazioni Amici della Musica per il genere cameristico”.
Ci racconti cosa significa lavorare allo Spasimo e quali sono le attività che svolgete in città e sul territorio siciliano?
“Non è soltanto lo Spasimo a caricarci di grandissime responsabilità. Dal 2010 la Fondazione ha in concessione d’uso il Real Teatro Santa Cecilia (1692), l’unico teatro pubblico storico che esista al mondo destinato al jazz.
Ritornando al Ridotto dello Spasimo (1506), noto anche come Blue Brass, non v’è dubbio che operare in quello straordinario sito monumentale nel quartiere arabo della Kalsa, caratterizzato dalla chiesa a cielo aperto, significa avere un jazz club tra i più rari che esistano al mondo (rispetto ad altri, quello del Brass ha ospitato negli anni ’70, Kenny Clarke, il batterista che eliminò la grancassa battuta in 4/4, Charles Mingus, Dexter Gordon …). In Italia, soltanto il Music Inn di Roma, gemellato con Palermo, vantava le stesse programmazioni.
Lavorare allo Spasimo significa, quindi, essere caricati di tantissime responsabilità. Sia sul piano del livello dell’offerta culturale, sia sul piano dell’aspetto formativo (oltre la sede legale e amministrativa della Fondazione, lo Spasimo è sede della Scuola Popolare di Musica). Un luogo nel quale annualmente si formano musicisti che diventano, spesso, noti professionisti. Giovani che vincono concorsi nazionali e si affermano professionalmente nel mondo dello spettacolo. Tra i più recenti basterebbero citare Lidia Schillaci, vincitrice poche settimane fa del programma Tale e quale, oppure Davide Shorty, vincitore della recentissima selezione per Sanremo Giovani, per non citarne altre diverse decine. Si fa prima a sostenere che non vi sono musicisti che, anche indirettamente, non si siano formati musicalmente grazie al Brass”.
Ci puoi spiegare qualcosa di più sull’orientamento musicale di The Brass Group e sulle vostre scelte artistiche?
“L’orientamento musicale del Brass è fortemente condizionato dal pensiero che la cifra che qualifica una comunità è ciò che essa produce sia in termini materiali sia immateriali. Forse, questa potrebbe essere la ragione che ha ispirato le scelte artistiche del Brass: produrre musica o, almeno, tentare di farla con le proprie risorse umane, anziché acquistarla preconfezionata da terzi.
Forse perché in termini di valore, credo che chiunque, con un budget adeguato, potrebbe invitare Michael Bublé a svolgere un concerto nella propria città. Ma sarà sempre uno dei concerti replicati da quell’artista in giro per il mondo. Ben altra cosa è avere un’orchestra, commissionare un’opera, incaricare un arrangiatore di orchestrare quell’opera e invitare un direttore e un solista a interpretare quel lavoro. Forse perché, essendo un musicista e avendo insegnato al Conservatorio V. Bellini composizione, orchestrazione e arrangiamento jazz, mi sento più attratto dalla creazione e dall’ideazione rispetto all’interpretazione. Mi piace immaginare che passeranno i secoli e ci saranno artisti che interpreteranno sempre brani come In a sentimental mood. Né più né meno come facciamo ancor oggi, dopo 2.500 anni a Siracusa con le tragedie di Euripide, Eschilo o Sofocle.
Mi piace perciò riprendere l’epigrafe, incisa sull’architrave del portico del Teatro Massimo «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». In pratica, mi piace pensare che sia la qualità della produzione artistica di quel popolo a rilevarne la sua vita. E non l’attività di ospitalità. Che comunque riveste valori fondamentali per la crescita e lo sviluppo di una comunità.
D’altronde, è pur vero che un viennese non si congratulerebbe e non ringrazierebbe mai il suo sindaco per avere promosso un concerto di Lady Gaga. Assai probabilmente quel viennese si vanterebbe della recensione critica di un quotidiano di Pechino che esalta il suono dei Wiener tra i più belli del mondo. Ecco, probabilmente questa è una delle ragioni che indusse Carla Bley a scegliere l’Orchestra Jazz Siciliana per realizzare un album di musiche per orchestra da lei composte negli anni ’80. Perché, ciò che impressionò la pianista americana è stato il sound dell’ensemble siciliano. Quel suono che hanno le orchestre costituite dagli stessi musicisti che suonano insieme per interi decenni. Bene, l’Orchestra Jazz Siciliana ha un suono immediatamente riconoscibile perché quei musicisti suonano insieme da oltre trent’anni. Ecco, anche questo è uno degli orientamenti musicali del Brass”.
Ci racconti un concerto indimenticabile tra quelli che hai organizzato in questi anni?
“Dovendo citare soltanto un concerto, mi vede costretto a rinunciare a quello svolto da Frank Sinatra, un altro artista di origini siciliane, che tenne la prima nazionale a Palermo, per il Brass. Per ricordare la prima esecuzione europea (1991), in esclusiva assoluta, di EPITAPH di Charles Mingus, eseguita dall’Orchestra Jazz Siciliana, diretta da Gunther Schuller. Il grande Maestro nel ’97, con Marcello Piras, Bill Russo – altro musicista di origini siciliane – Dusko Goykovic, Pietro Tonolo e Mario Raja, è stato docente di composizione della Scuola Europea d’Orchestra Jazz, curata dal Brass negli anni ’90 allo Spasimo. A fine concerto, presente in sala il gotha del giornalismo jazzistico italiano (non li ricordo tutti ma alcuni tra Arrigo Polillo, Franco Fayenz, Gerlando Gatto, Ugo Sbisà, Ernesto Assante, Dario Salvatori, Marco Molendini, Vittorio Franchini, erano presenti), volle salire sul palco la Signora Sue Mingus per ringraziare l’orchestra e il Maestro, la quale, prendendo la parola, disse commossa al pubblico che gremiva la sala: “Né Londra, né Vienna, né Parigi, hanno saputo celebrare mio marito Charles, così come hanno saputo fare Palermo, il The Brass Group e la sua Orchestra Jazz Siciliana”.
Invece un sogno nel cassetto per il futuro di The Brass Group?
“Sogno di poter dare dignità ai musicisti e ai lavoratori tutti del Brass e sarei felicissimo se la dignità del lavoro si estendesse a tutti i musicisti jazz italiani. Perché è inaccettabile che siano ancora condannati a una sorta di ergastolo sociale per essere considerati, nella migliore delle ipotesi, musicisti d’intrattenimento, meglio fruibili d’estate in qualche sushi bar per sorseggiare un drink tropicale ai bordi di una piscina mentre suonano Estate di Bruno Martino, magari con un ritmo di bossa nova, alla João Gilberto.
Sogno che la parità di genere diventi una questione nazionale non più limitata all’uguaglianza sessuale, ma deve diventare una condizione nella quale i musicisti ricevano pari trattamenti, con uguale facilità di accesso a risorse e opportunità, indipendentemente dal genere musicale. Altrimenti qualcuno dovrebbe spiegare al Parlamento perché si laureano tanti giovani se i centri di produzione musicale italiani producono prevalentemente musica antica. Ecco, bisogna iniziare da lì, dal SISTEMA GARSIA, come lo volle intitolare Lucio Forte negli anni ‘90, addetto stampa del Brass, quando scrisse la presentazione di un mio testo ideato per innovare il sistema produttivo musicale italiano”.
Ci segnali un socio I-Jazz che ti piace per la sua programmazione?
“Farei un torto ad altri se citassi un solo socio. Preferisco dare un complesso d’indizi dai quali si possano dedurre le programmazioni dei soci di I-Jazz che apprezzo molto. Ammiro tanto i progetti che irradiano le programmazioni musicali in vaste aree del territorio regionale, prolungandosi nel tempo in diversi mesi dell’anno. Perché lì c’è impegno. Lì si avverte che, da parte del promoter locale, è sentito il bisogno di considerare le attività musicali come un servizio d’interesse pubblico da rendere fruibile con regolarità tutti i mesi e le settimane dell’anno. E non come l’acqua che in certi paesi del sud, spesso è fruibile alcuni giorni la settimana. Ecco perché mi entusiasmo poco per quei festival che si svolgono in aree di un certo territorio regionale, musicalmente non servite. Perché sento lo stesso fastidio che proverei nei confronti di quei soggetti che si abbuffano di dolci per un’intera settimana mentre nel resto dei mesi patiscono la fame. Sono portato a credere che con la spesa di quei dolci si potrebbero acquistare tanti chili di pasta e pane per soddisfare il bisogno di intere settimane”.
Quali azioni dovremmo fare, a tuo avviso, per portare più musicisti italiani nel mondo?
“Dovremmo prendere come modello l’Olanda. Che ha creato un ufficio di promozione attraverso il quale, con il proprio personale colto e ben informato, prende contatto personalmente con tutti i promoter di uno stato. Fissano prima degli appuntamenti e dopo visitano uno per uno i local promoter, documentando con materiale informativo (CD, DVD, foto, rassegne stampa, ecc.) l’attività degli artisti olandesi che quell’anno sono in promozione. In pratica, loro fanno più promozione delle nostre agenzie nazionali che aspettano l’ordine di un promoter per piazzare il musicista richiesto che fa parte già del loro roster. In più, quell’agenzia olandese credo che offra degli scambi culturali. Nel senso che promuovono i loro musicisti, ma sono disponibili, a parità di condizione, a ospitare i musicisti del paese convenzionato”.
Una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
Intestarsi la promozione di un’azione tesa a far si che la Federazione Nazionale del Jazz Italiano faccia suo il SISTEMA GARSIA per lanciare un’azione tesa a invocare la parità di genere tra le attività di produzione musicale.
Il sistema si fonda sul principio evocato da Gunther Schuller che sosteneva che “tutte le musiche sono nate uguali”. Partendo da questo principio, quando si ampliò con il jazz l’offerta formativa italiana, a nessuno venne mai in mente di proporre al Ministero la creazione di altri sessanta conservatori (che con gli istituti di alta formazione superano quella cifra). Semmai, la cosa più ragionevole e condivisibile è parsa quella di estendere l’insegnamento del jazz a tutti i conservatori esistenti in Italia.
Senza la spesa folle che avrebbe comportato la creazione di altri sessanta istituti, e diverse centinaia di unità lavorative tra amministrativi e ausiliari. Per lo stesso principio e per assicurare un’offerta musicale rispondente ai bisogni della collettività e non delle élite, estesa in termini produttivi al genere jazz, basterebbe, anziché richiedere la creazione e il finanziamento di altre ventotto orchestre di musica jazz (tante sono quelle di genere lirico e sinfonico), anziché la creazione di ventotto auditorium, più l’assunzione di alcune migliaia di amministrativi e ausiliari, sarebbe sufficiente estendere ad altri venti professori jazz gli organici delle già esistenti quattordici orchestre liriche e quattordici orchestre sinfoniche (ovviamente con altrettanti direttori artistici).
In pratica, con una spesa complessiva di circa € 16,8 milioni (mediamente € 30 mila per unità), si tratterebbe di aumentare di n. 560 unità complessive (ventotto orchestre per venti strumentisti) gli organici delle ventotto orchestre esistenti in Italia. Che impegnano, tra amministrativi e masse artistiche alcune migliaia di lavoratori. Facendo la massima attenzione a dimostrare che, l’estensione degli organici delle orchestre esistenti, aumenterebbe sensibilmente la produzione e, soprattutto, le entrate dirette degli enti lirico sinfonici. Infatti, considerando mediamente un concerto per quarantaquattro settimane, per ventotto enti di produzione, il totale darebbe 1.232 concerti. Se consideriamo un incasso medio di € 10.000,00 per 1.232 concerti, si registrerebbero entrate dirette pari a € 12 milioni. Ma il dato più rilevante sarebbe che l’offerta concertistica degli enti di produzione musicale italiana, con l’aggiunta di sole venti unità lavorative, sarebbe così rispondente ai bisogni di musica del popolo italiano”.