Pubblicato il 12/01/2021
Il racconto dei festival dell’associazione I-Jazz riparte dal Nord Est, nello specifico da Udine e dall’associazione Euritmica. Il presidente Corrado Beldì ha raggiunto Giancarlo Velliscig, figura storica del jazz in Italia e simbolo di un modo attento e sempre contemporaneo di fare e promuovere la cultura. Velliscig da molti anni cura e dirige l’attività delle associazioni Euritmica e Onde Mediterranee per le quali dirige le rassegne musicali Udin&Jazz, Onde Mediterranee, Note Nuove, le stagioni musicali del Teatro Pasolini di Cervignano.
Partiamo da Udin&Jazz, ci racconti come è nata l’idea del vostro festival?
“Beh, parliamo di più di trent’anni fa, e l’idea nacque per dare una risposta stabile a un interesse che in quegli anni si era rivelato importante in regione attorno al jazz, anche grazie al successo di una programmazione che curavo in un club udinese, il Cadillac, esperienza esaltante anche se breve, che però ha diffuso semi fruttuosi su un fertile terreno. A quel tempo, dalle mie parti, non c’era nulla che sembrasse un festival degno di questo nome, solo qualche sporadico evento, un gruppo di amanti del Be Bop o alcuni vecchi appassionati del Circolo del jazz a Trieste.
Decisi quindi di realizzare un progetto organico che desse un’occasione di conoscenza e avvicinamento a questa musica ricca e affascinante per non essere valorizzata seriamente, e feci diversi tentativi in diverse location della regione; partimmo da Grado (dove ora siamo tornati…), poi a Gorizia nel 1990 con gli “Incontri jazz” (rassegna che ho riproposto per 10 anni finché nacque una nuova realtà a livello locale, a cui passai il testimone, ma che di lì a poco però fece morire tutto).
Nel 1991 ebbe inizio l’esperienza di Udin&Jazz, con una prima edizione che definirei ‘didattica’ e che, grazie alla collaborazione di un grande amico come Claudio Donà del Caligola di Mestre, disegnava attraverso una serie di concerti a tema, il percorso evolutivo del jazz. Fu un avvio incoraggiante e poi un successo”.
Raccontaci qualcosa della vostra storia: quali sono i momenti di cui vai più orgoglioso?
“Posso dire che la nostra trentennale vicenda è stato un continuo crescendo nel valore qualitativo e quantitativo degli eventi e del progetto complessivo. Anche se non sempre ci fossero le condizioni oggettivamente migliori, siamo riusciti a far diventare il nostro festival, quassù nel profondo Nord Est, qualcosa di davvero importante, mantenendo una coerenza e un’impostazione che non sempre è stato facile difendere. Abbiamo visto nel nostro festival un’opportunità di promuovere un jazz che trasmetta contenuti e valori non solo artistici, ma anche più apertamente culturali e sociali. Non abbiamo voluto, a differenza di altre situazioni, abbinare il jazz a contesti o slogan mercantili che col jazz non hanno nulla a che fare, e che forse potranno dare una chance in più con qualche sponsor, ma che fanno perdere qualità e spessore a tutto il progetto.
E soprattutto sono orgoglioso di aver ‘seminato’ a largo raggio, promuovendo, accanto a grandi nomi del jazz mondiale, numerosi musicisti e gruppi della nostra terra, contribuendo poi alla nascita dal nulla di diverse realtà attraverso cui il jazz ha messo larghe radici nella nostra regione, traendo ispirazione e opportunità dal movimento di pubblico e di musicisti sorto anche in seguito a Udin&Jazz”.
Lo spostamento delle attività a Grado ha portato a un cambio di impostazione?
“Innanzitutto devo dire che la parentesi gradese è, e sarà spero per parecchio, la versione estiva del festival di Udine che, per la sua parte winter, si continuerà a svolgere nel capoluogo friulano. Le due edizioni finora portate a Grado ci hanno senza dubbio costretti a scelte artistiche che tengono conto del contesto e del tipo di pubblico per buona parte non stanziale, ma in misura rilevante proveniente da regioni e Paesi confinanti. Questo ci ha obbligati a rivedere in parte la scelte artistiche che necessariamente danno più spazio a nomi di rilievo nazionale e internazionale, in grado dunque di interagire positivamente con chi deve decidere se venire a Grado per le sue vacanze seguendo il festival. Le proposte più innovative e di avanguardia le inseriamo in contesti più raccolti e adeguati, che consentano una maggiore formazione e attenzione all’ascolto, nelle rassegne invernali. Grandi cambiamenti sono stati apportati anche alla strategia di comunicazione che si è estesa a un’area molto più ampia, a livello europeo”.
Come sta cambiando il pubblico del jazz? Quali azioni per il futuro?
“Il pubblico del jazz, per la nostra esperienza, è assai fluido e mutevole: posso dire che c’è una notevole componente di pubblico ‘maturo’, che viene da una lunga frequentazione di questo mondo, ma c’è un ricambio continuo che si manifesta in base alle novità delle singole proposte che possono rappresentare interessi e gusti molto più recenti, per ascoltatori più giovani.
Quello che emerge da un’osservazione che appare evidente, è che il jazz più d’avanguardia era e rimane frequentato da una nicchia nella nicchia, dimostrando che non sempre il passare del tempo determina l’assimilazione del linguaggio moderno da parte del pubblico. Spesso, dopo anni di percorsi e proposte, ci si rende conto che si deve praticamente ricominciare da capo, e per certi versi è quello che facciamo, trovandoci di nuovo nella necessità di ‘tranquillizzare’ chi si ritiene inadeguato di fronte a “qualcosa di jazz”.
Va poi detto che, soprattutto per una certa area politica, il jazz è ancora considerato come qualcosa di ostile, o addirittura, come di tutto quanto non si conosce o non si capisce, da abbattere ed eliminare”.
Ci raccontarti una grande soddisfazione di questi anni?
“Potrei dirti l’aver portato a Udin&Jazz i più grandi protagonisti del jazz mondiale come non era mai accaduto dalle mie parti. Potrei dirti l’aver potuto godere dell’amicizia di personaggi straordinari della storia del jazz e della musica mondiale degli ultimi 50 anni (come Michel Petrucciani, Charlie Haden o Ezio Bosso…).
Ti dico invece l’aver ridato vita, qualche anno fa, alla storica Orchesta Jazz Città di Udine, formazione che raccoglieva i pionieri del jazz di casa nostra e di cui abbiamo registrato e prodotto un disco con i lavori migliori, e di avere più recentemente promosso la nascita della Udin&Jazz Big Band, una formazione giovanissima, piena di talenti che in qualche modo rappresentano il futuro del jazz nella mia regione. Due esperienze che in qualche modo segnano il tempo e il piacere di lasciare un segno del proprio lavoro nella comunità”.
Quali progetti per il futuro di Udin&Jazz?
“Nei nostri secondi trent’anni penso che punteremo a riavvicinare sempre più la gente a questa musica e a quello che rappresenta. Le forme della comunicazione moderna determinano un progressivo isolamento emozionale della singola persona che viene sommersa dalla quantità di quanto gli giunge dal mondo piuttosto che dalla qualità, anche in seguito alla recente devastante pandemia che ci ha trasformati in eremiti di massa.
Incentiveremo l’attività sia nelle arene estive sia al chiuso nella stagione invernale attraverso le varie iniziative come Udin&Jazz, Borghi Swing, Grado Jazz, Udin&Jazz Winter e altro che vorremmo realizzare non appena potremo disporre di una sede per concerti a grossa capienza (e stiamo definendo in tal senso un progetto assai importante) per far apprezzare di nuovo a tutti il piacere della condivisione diretta di un mondo e di un linguaggio comuni, un vero codice di lettura dell’arte e della società”.
Ci racconti un socio I-Jazz che ti piace per la sua programmazione?
“Posso dire che apprezzo i vari festival (e per fortuna ce ne sono molti) che si impegnano con coraggio a dare al jazz il rispetto che merita senza scadere in operazioni che, per mere necessità di botteghino o di autoreferenziale bulimia mediatica, lo trasformino in un sottofondo trandy necessario a piazzare tutt’altro. Penso che questo squalifichi un po’ tutto il movimento jazz nazionale che sta invece cercando di essere finalmente preso sul serio nelle alte stanze della Cultura istituzionale, come meriterebbe”.
Ci segnali tre nomi interessanti nel panorama del giovane jazz italiano?
“Senza dubbio il trombettista Mirko Cisilino, un giovane che si sta facendo apprezzare assieme a Franco D’Andrea e in molti altri progetti, oltre a essere spesso coinvolto in ambiti extra jazz, per le sue doti di musicista aperto e creativo. Poi posso dire che ho ascoltato cose pregevoli da Michelangelo Scandroglio, contrabbassista e leader di un bel progetto davvero.
Come talento che sta poi esprimendo i suoi significativi progressi devo segnalare un altro friulano, il pianista Emanuele Filippi, che dopo un periodo passato a respirare l’aria del nuovo jazz newyorkese (e dopo aver coordinato, composto e arrangiato molti brani per la nostra Udin&Jazz Big Band) ora esprime, nel suo primo disco appena prodotto, personalità e tecnica non comuni”.
Quali azioni dovremmo dare per portare più musicisti italiani nel mondo?
“Penso che I-Jazz debba lavorare molto su due aspetti: valorizzare la qualità dell’offerta attraverso una selezione all’origine delle proposte che ogni giorno vedono la luce e che, solo nei casi migliori, possono essere valorizzate prima in Italia e poi ambire a uscire a buon titolo nel mondo.
Successivamente sarebbe doveroso riuscire a rendere operativo, nel senso più concreto del termine, il circuito dell’EJN che dovrebbe essere un vero veicolo di scambi, circuitazione e diffusione, quantomeno tra i festival associati, delle migliori realtà del nostro jazz a fianco a quello del resto d’Europa.
Servirebbe un motore che avvii un progetto analogo a quanto realizzato, per esempio, dalla Norvegia qualche anno fa, che proponeva i suoi gruppi migliori con importanti facilitazioni, riduzione importante dei costi di viaggio grazie a sinergie con compagnie aeree e con le autorità ministeriali che investano sul nostro jazz come veicolo di una nuova immagine del nostro Paese anche nella modernità, pur mantenendo il suo legame con lo straordinario patrimonio artistico classico e lirico di cui l’Italia è ricchissima”.
Una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi, a tuo avviso, I-Jazz?
“I-Jazz dovrebbe cercare di riunire davvero tutti i festival jazz italiani per una necessaria considerazione di tutto il mondo di organizzatori e strutture, e quindi anche di tecnici e addetti veri, che non può rimanere, a fronte di una elevata qualità di progetti e attività, in uno stato costante di precarietà di mezzi e condizioni lavorative. Dovrebbe anche saper offrire un’immagine esterna di questo settore artistico che sia di alto livello, stilando un documento di sintesi regolare, e non occasionale, dei risultati del nostro lavoro e le sue potenzialità: un esempio concreto che, fraternamente e con spirito propositivo mi sento di criticare, è stata la recente pubblicazione di un lavoro che, con l’impegnativo titolo di I Festival Jazz in Italia, analizza solo alcuni dei festival italiani mentre sarebbe interessante estendere l’analisi a un numero maggiore di associazioni.
Penso infine che sarebbe strategico e utile per I-Jazz lavorare per aprire un canale e una redazione TV di jazz che consentirebbe di recuperare un gap di presenza e visibilità del jazz in generale e dei singoli operatori e festival italiani, ben al di sopra della mera comunicazione sui social”.
Se il Ministro Franceschini ti dicesse “posso esaudire un tuo desiderio”, cosa gli chiederesti?
“Gli direi di realizzare, con il suo omologo all’Istruzione, un progetto di legge che facesse reinserire a pieno titolo la musica, e il jazz, tra le materie scolastiche fondamentali in tutte le scuole italiane, stringendo operativamente un legame forte con gli operatori e gli organizzatori del territorio che porterebbe a creare un nuovo pubblico di giovani in grado di comprendere il valore culturale e la bellezza della nostra musica come linguaggio universale di sensibilità creativa e strumento autentico di comunicazione tra le persone, per un futuro più umano e dialogante, che altrimenti un giorno non saprà che farsene di tutta questa tecnologia alienante”.