Pubblicato il 23/09/2020
Secondo appuntamento della rubrica curata dal presidente dell’Associazione I-Jazz, Corrado Beldì, che mette al centro il lavoro dei soci e il jazz italiano attraverso il loro racconto e la loro esperienza diretta. Il protagonista di oggi è Enzo Favata: direttore artistico di Musica sulle Bocche, musicista e compositore.
Partiamo dalla ripartenza, ci racconti come è andata quest’anno?
“Abbiamo scelto una strada innovativa: siamo al 20º anno e abbiamo voluto fare un festival itinerante, nella prima parte, poi una grande conclusione a Castelsardo. Abbiamo coinvolto nove comuni dalle Bocche all’Anglona fino all’Asinara, privilegiando un itinerario inclusivo delle comunità a rischio svuotamento”.
Quali sono stati i punti salienti della programmazione?
“Molti sicuramente: abbiamo fatto un programma coraggioso con nomi non scontati, tra l’altro, non per quota rosa ma per qualità, abbiamo avuto una presenza elevata di musiciste. Incoraggiante che molte siano strumentiste, certo in passato abbiamo avuto molte cantanti – poi c’è il fantastico esempio di Rita Marcotulli – oggi però abbiamo un panorama più ampio, penso a Camilla Battaglia ma anche a Giuliana Soscia e poi alla fantastica Rosa Brunello e poi ancora a Luciana Elizondo, di Rosario in Argentina, suona la viola da gamba in un percorso che varia dal barocco alla musica latino-americana”.
Raccontaci qualcosa sulla storia del festival: quando e perché nasce Musica sulle bocche?
“Vent’anni fa avevo fatto un concerto a Santa Teresa di Gallura con il mio gruppo Voyage en Sardegne, quello nato nel 1997 per i dischi del Manifesto, era un viaggio nella Sardegna tradizionale vista attraverso il contemporaneo, un po’ sulle orme di Alberto la Marmora di cui tu recentemente hai scritto. Eravamo poi partiti per un tour europeo e una sera, al tramonto, ricevetti una telefonata: mi chiedevano di fare un festival di musica internazionale. Guardando il paesaggio davanti a me pensai, “si chiamerà Musica sulle Bocche”. Così è nato questo festival che ha sempre cercato di lavorare sui musicisti e di portare avanti un’idea di sostenibilità, uso di energia alternativa, materiali riciclabili e l’idea dei concerti all’alba o il tramonto, proprio per sfruttare la luce naturale”.
Come vedi il festival tra 10 anni?
“Devo dirti che proprio 10 anni fa pensavo che il festival avrebbe dovuto diventare più itinerante, siamo passati dal grande palco in piazza all’avventura nel centro storico del paese, sfruttando architetture storiche come scenario, aggiungendo le proiezioni. Ci siamo davvero trasformati e questo è un valore importante per includere nuovo pubblico. Credo che questa attitudine debba essere sviluppata in futuro, con l’idea di includere un numero sempre maggiore di giovani”.
Ricordaci un vostro concerto indimenticabile.
“Sono tanti ed è difficile sceglierne uno, ti dirò però Egberto Gismonti che venne dal Brasile perché Manfred Eicher, che era un frequentatore del festival, gli aveva detto che doveva assolutamente suonare all’alba sulla nostra spiaggia. Il suo esotismo di fronte al mare fu un momento di grande poesia”.
Passiamo invece a te adesso: chi è stato il tuo grande eroe del jazz e per quale motivo?
“Certamente John Coltrane perché ha saputo cambiare e se fosse vissuto più a lungo avrebbe cambiato ancora più di Davis, passando dall’ipertecnicismo all’iper spiritualismo. Ovviamente da sassofonista l’ho studiato molto, un grande esempio per me nel cercare sempre di evolvere; penso anche al mio ultimo quartetto, con l’inserimento, a fianco di Pasquale Mirra e di Rosa Brunello, del giovane Marco Frattini che viene dal Hip-Hop e che ha dato una sonorità tutta nuova al nostro gruppo”.
Hai un grande rimpianto di questi anni?
“Non saprei dire, sono sempre stato molto rigoroso nell’idea di portare il festival verso il grande pubblico, soprattutto dal giorno in cui mi accorsi che avevo davanti una platea fatta solo di capelli bianchi. Da allora lavoro per aggiungere facce sbarbate. So che chi osa sbaglia, ho fatto certamente tanti errori ma sono uno che cerca di risolverli”.
C’è una fotografia, una immagine, a cui sei legato?
“C’è una foto favolosa di Ziga Koritnik, riprende la Valle della Luna con 2000 persone al tramonto, non sapevano nemmeno chi stava per suonare, eravamo riusciti a trasformare un concerto in un happening, professori universitari, operai, studenti, punkabbestia, impiegati, insomma un pubblico molto vario che si era fatto 20 minuti di trekking per sorbirsi due ore di concerto senza nemmeno sapere di cosa si trattasse. Quella foto è stato il premio di tanto lavoro, non solo mio, che sono della punta dell’iceberg, ma di tutte le persone che fanno parte della mia squadra, l’80% sono donne che danno una grande mano creativa nel realizzare il festival”.
Cosa significa fare il direttore artistico di un festival?
“Per me significa cercare sempre di ampliare il tipo di musica che si presenta, costruendo un programma sempre più vario; poi nello specifico qui vorrei fare delle incursioni in luoghi sempre nuovi. Quest’estate ho visto paesaggi stupendi che mi hanno fatto sognare, penso al Castello Chiaramonti, dove probabilmente l’anno prossimo organizzeremo un concerto”.
Parlando invece dei tuoi colleghi, c’è un socio I-Jazz che ti piace per la sua programmazione?
“Apprezzo molto Fano Jazz by The Sea, è un bel festival che possiede una seria e stimolante sintesi tra lavoro, economia e stratificazione del consenso nella città. Un programma efficace ma sempre lontano dalle ovvietà. Questa è una raccomandazione che mi sento di fare ai miei colleghi, occorre essere curiosi, creare degli eventi in cui il pubblico viene per ascoltare musica, come negli anni 70, magari senza nemmeno sapere i nomi di chi suona”.
Tre nomi interessanti nel panorama del giovane jazz italiano che vuoi segnalarci?
“Sicuramente Silvia Bolognesi, non è giovane ma ha saputo tendere la mano ai giovani, il suo ultimo gruppo Young Shouts – tra l’altro premiato tra i gruppi Nuova Generazione Jazz 2020 – è davvero un gruppo straordinario, con giovani molto talentuosi. Ovviamente Rosa Brunello, per me è una musicista eccezionale e anche in grande crescita. Infine mi piace molto il lavoro di Emanuele Marsico. La sua musica è anche il frutto di una conoscenza approfondita della storia del jazz”.
Puoi raccontarci una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
“Credo che l’associazione debba aiutarci a costruire un nuovo rapporto con il pubblico, a usare logiche più innovative, a sviluppare la sensibilità dei direttori artistici per andare verso una programmazione nuova, a sviluppare idee comuni, magari progetti di diversa estrazione da far girate nella rete dei soci”.
Se il Ministro ti dicesse: “posso esaudire un tuo desiderio”, cosa gli chiederesti?
“Gli direi di dare più risorse a I-Jazz per allargare il pubblico verso gli strati più giovani della società, perché possa insomma lavorare sul futuro dei nostri festival. L’allargamento del pubblico è un progetto decisivo per il nostro futuro. Dobbiamo fare un grande patto per raggiungere insieme questo obiettivo”.
Ph: Giulio Capobianco