Pubblicato il 28/09/2020
Terzo appuntamento della rubrica curata dal presidente dell’Associazione I-Jazz, Corrado Beldì, che pone l’attenzione sul lavoro dei soci e sul jazz italiano attraverso le voci, i racconti e le esperienze dei diretti interessati. I protagonisti di oggi sono i due musicisti e direttori artistici del Torino Jazz Festival, al via con la sua seconda parte dal 2 ottobre, Diego Borotti e Giorgio Li Calzi.
Come sono ripartite le attività di Torino Jazz Festival?
DB: “Dopo l’annullamento dell’edizione di aprile abbiamo deciso di riprendere parte del programma del festival in due periodi, il main stage a fine agosto e ora, dal 2 all’11 ottobre, con TJF Jazz Cl(h)ub, un programma che coinvolge 12 jazz club cittadini per 50 concerti, ovviamente senza la sovrapposizione del festival ma comunque un segno per dare continuità”.
Mi raccontate tra i concerti interessanti di questa edizione?
GLC: “Innanzitutto abbiamo scelto un programma non eccessivamente di ricerca; abbiamo comunque fatto sold out in uno spazio con 200 posti a causa del distanziamento. Abbiamo cercato di mantenere la cifra internazionale, quest’anno abbiamo potuto invitare solo musicisti residenti in Francia come Marc Ducret, Manu Katché e la cantante algerina Souad Asla, davvero fantastica, soprattutto quando è riuscita a far cantare a tutti un salmo religioso islamico; è stato un momento davvero toccante. Voglio ricordare anche alcune produzioni, penso a quella di Paolo Fresu con un ensamble torinese oppure il progetto speciale di Roberto Gatto su Accattone di Pier Paolo Pasolini”.
Come è il rapporto di Torino Jazz Festival con la città?
DB: “Fin dal primo anno abbiamo cercato di intensificare i rapporti con la comunità dei musicisti locali, artisti che seppur suonando nella loro città tendono ad essere poco valorizzati. Al Torino Jazz Festival invece hanno suonato nel Main Stage, non è un sogno nel cassetto me un progetto concreto. Penso ai tanti progetti fatti con Michael Breacker, Carla Bley, Gary Bartz e tanti altri. Penso poi alla centralità che abbiamo dato ai jazz club che sono dei presidi culturali e sociali imprescindibili”.
Mi racconti come si coniuga questa attenzione con l’impostazione della vostra direzione artistica?
GLC: “Innanzitutto abbiamo ereditato un grande festival, nato per merito dell’indimenticato Assessore alla Cultura, Maurizio Braccialarghe, e diretto in modo eccellente da Stefano Zenni. Noi abbiamo cercato di aggiungere maggiore attenzione al territorio e alle realtà locali. Penso a Torino Jazz Festival Piemonte, l’idea di coinvolgere e sostenere l’attività delle diverse comunità regionali, valorizzando le singole direzioni artistiche. Per questo occorre cercare di guardare la realtà musicale un po’ dall’alto, senza pensare troppo ai propri gusti personali”.
DB: “Credo poi che ci sia ricchezza nella nostra diversità di vedute, io sono più legato al linguaggio afroamericano, Giorgio ha maggiore interesse per le cose laterali, per una musica più contemporanea e crossover, per la musica del Nord Europa”.
Mi raccontate alcuni concerti indimenticabili di queste prime edizioni?
DB: “Per me certamente il concerto di Joshua Redman con Reuben Rogers e Gregory Hutchinson, impressionante come un musicista di fama mondiale come lui è riuscito a prendersi dei rischi incredibili ad ogni battuta, un musicista per cui l’improvvisazione è ancora un valore sommo; certo c’era struttura con un’idea della musica che tende all’infinito. Poi senz’altro il concerto di Archie Shepp per la sua capacità di coniugare le musiche più blues al free, davvero un musicista unico. Memorabile anche il concerto Parker 100 con Mattia Cigalini, Jesse Davis e Francesco Cafiso, molto emozionante; mi ha fatto capire l’importanza dell’influenza di Bird, tutto il contrario di una rievocazione di maniera”.
GLC: “Il concerto di Bugge Wesseltoft, una delle maggiori concentrazioni di idee musicali che io abbia visto negli ultimi anni in concerto. E poi il fantastico duo di Sidsel Endresen con Stian Westerhus, una grande cantante radical col mio chitarrista preferito. Memorabile anche il concerto di Terje Ripdal con Palle Mikkelborg alla tromba: quando ne ho parlato con Enrico Rava, lui mi ha detto che Palle è semplicemente il migliore dello strumento”.
Come vedi Torino Jazz Festival tra 10 anni?
DB: “Oggi il festival vive in una culla grazie alla Fondazione per la Cultura Torino e ai nostri main partner Intesa San Paolo e Iren. È possibile che negli anni il festival diventi più legato agli sponsor, insomma più imprenditoriale, speriamo senza mai derive commerciali. Credo che della nostra eredità sia da preservare il Jazz Club e Torino Jazz Festival Piemonte, due bei progetti che hanno consentito al festival di dialogare con i territori e le diverse direzioni artistiche e musicali. Auspico che all’interno della direzione artistica ci sia sempre un musicista piemontese per portare quella conoscenza del territorio e quelle buone pratiche che sono fondamentali quando fai un festival con risorse pubbliche e devi dunque avere una forte relazione con la comunita jazzistica locale”.
Che cosa pensate del movimento creato negli ultimi anni dal sistema dei festival e dalle varie realtà associative?
GLC: “Mi pare che il sistema comunichi molto a partire dall’associazione I-Jazz, dalla federazione, da Paolo Fresu stesso, nel ruolo di presidente della Federazione, di tante persone che si sono spese per il bene comune. Il lavoro fatto è stato ottimo ma siamo davanti a una fase critica in cui dobbiamo saper seguire le nuove generazioni, dobbiamo riuscire a programmare ciò che interessa a un ventenne”.
Cosa credi dovrebbe fare nello specifico Associazione I-jazz per portare avanti il proprio lavoro?
DB: “Ci sono grandi battaglie all’orizzonte, tanto è stato fatto anche con Midj e la Federazione per avere un riconoscimento istituzionale. Sarà importante ora lavorare per qualche obiettivo nuovo e incisivo; penso a quando Giorgio Gaslini dopo tanto lavoro è riuscito a portare il jazz nei conservatori, con effetti duraturi per tutta la nostra comunità. A questo proposito sarebbe interessante lavorare sulle orchestre stabili, con l’istituzione di una grande orchestra jazz nazionale con una direzione a rotazione e con la formazione di ensemble jazz su base regionale: un’opportunità per consolidare le professionalità di tanti musicisti, ovviamente non per incanalare il jazz in un ambito di mera esecuzione ma prestando sempre grande attenzione al lato più liquido e creativo del genere”.
Se il Ministro della Cultura potesse esaudire un tuo desiderio, cosa chiederesti?
GLC: “Chiederei di riconoscere il ruolo del musicista free lance anche dal punto di vista sociale: nel nostro paese essere un musicista senza insegnare in un liceo o in un conservatorio è davvero faticoso, occorrono più risorse per riconoscere la professione del musicista e dandogli più libertà di scegliere il proprio destino artistico. In questo la Norvegia è un grande esempio, con tanti denari e un sistema formativo di eccellenza che ha creato alla fine un sistema musicale di grande varietà e creatività. Un modello che anche l’Italia dovrebbe seguire”.