Pubblicato il 10/12/2020
Continuano gli incontri con i soci della I-Jazz, attraverso le interviste curate dal presidente Corrado Beldì. Questa settimana torniamo in Emilia Romagna, più precisamente a Ravaldino in Monte, periferia forlivese in direzione Meldola, nella speciale Area Sismica, realtà conosciuta in tutta Italia e non solo per la capacità di promuovere e diffondere le musiche innovative e contemporanee, a 360°. Beldì ha incontrato il direttore artistico Ariele Monti, con il quale ha parlato dell’anno che sta per concludersi, della ripartenza, della storia di Area Sismica, di musica e molto altro.
Partiamo dalla ripartenza: Area Sismica è ripartita con grande coraggio, ci racconti il programma di quest’anno?
“Quando attorno a fine maggio si è intravisto uno spiraglio normativo per poter riaprire, non ci sono stati dubbi o, meglio, non c’erano altre opzioni che non fosse progettare una stagione estiva, perché sappiamo benissimo che tutti coloro che ruotano attorno alle realtà organizzatrici di spettacoli dal vivo, piccole o grandi, erano alla canna del gas e i beneficiari di contributi pubblici, piccoli o grandi, della cosiddetta filiera avevano un dovere impellente, vista la possibilità di poter proporre concerti con la presenza di pubblico.
Per cui abbiamo inventato residenze artistiche per mettere assieme il più alto numero di musicisti amici e sodali, coinvolgere il più alto numero possibile di professionalità, come ad esempio alternare più service audio, anziché piazzarne uno per tutta la stagione. Abbiamo aperto a metà giugno e tutti i concerti sono andati esauriti, con i protocolli rispettati rigidamente senza problemi. Era evidente da parte di tutti la grande voglia di godersi uno spettacolo vissuto dal vivo”.
Raccontaci qualcosa della storia del circolo: quando e perché nasce Area Sismica?
“Area Sismica nasce 31 anni fa e ha cambiato pelle più volte, ma mai l’anima. Al di là delle etichette, lo sguardo è da sempre rivolto allo snodo tra arte e vita, al contesto del presente. Per questo non siamo incasellabili in un genere musicale, jazz compreso, perché ne abbracciamo diversi.
In tutti questi anni siamo riusciti a creare forti legami con anime meravigliose di vari mondi ed è proprio questo il motore che ci anima, al di là della musica”.
Come bilanci la programmazione jazz con quella di altri generi musicali?
“Per quanto riguarda la stagione musicale l’idea è di avere equilibrio, alternanza, per offrire una panoramica della musica attuale in più forme possibili. Anche il Festival Forlì Open Music è un cammino tra i vari mondi musicali che parte dalla musica classica per evidenziare come si è evoluto il linguaggio che amiamo.
L’altro nostro festival, quello dedicato alla Musica Contemporanea Italiana, è aperto anche ad ambiti improvvisativi che penso si possano collocare nel panorama jazz, ma non sono un purista”.
Come sta cambiando il pubblico di Area Sismica?
“Negli ultimi anni vedere le giovanissime generazioni che frequentano i nostri concerti, di qualsiasi ambito sonoro siano, è una soddisfazione immensa. C’è la percezione che abbiano finalmente guardato attraverso la sottile violenza mediatica che tenta di far credere che certi approcci alla musica abbiano ancora qualcosa da dire.
La trasversalità del nostro pubblico è poi aumentata anche con il Forlì Open Music, un evento molto potente dal punto di vista divulgativo, così come per la collaborazione su più livelli con gli istituti scolastici del forlivese”.
Ci racconti un vostro concerto indimenticabile?
“Il concerto dell’Arditti Quartet dedicato alle composizioni per quartetto d’archi di Stefano Scodanibbio, con cui siamo stati particolarmente legati, è stata una gioia che non so raccontare. Faceva parte di un progetto con la Rassegna Nuova Musica di Macerata, il cui obiettivo è un CD che sta per uscire per Kairos, tutto incentrato su queste composizioni, interpretate appunto dall’Arditti Quartet, che dal vivo hanno sempre del trascendentale. L’impatto emotivo, la portata artistica, lo sforzo organizzativo, la risposta del pubblico, tutto è stato un mosaico che si è incastrato splendidamente. Ce ne sarebbero un altro migliaio di concerti da citare, ma si sa… ogni scarrafone…”.
Invece, una grande soddisfazione e un grande rimpianto di questi anni?
“La soddisfazione è un altro concerto organizzato, la reunion degli Henry Cow dopo 35 anni all’interno dell’omaggio a Lindsay Cooper, che doveva essere un one shot a Londra e invece lo hanno eseguito anche a Forlì (oltre che ad Huddersfield). Fu incredibile essere riusciti a portarli in Italia, come incredibile è stato il lavoro per concretizzare questo sogno, dato che coerentemente con la loro storia non erano contemplate intermediazioni.
Il rimpianto è quello di non essere riuscito a dare una struttura più forte all’organizzazione, il suo scheletro è ancora molto osteoporotico e rischia sempre di fratturarsi. In questi 31 anni di attività abbiamo avuto una evoluzione positiva costante, ma nonostante questo speravo in una minore vulnerabilità”.
Ci descrivi una immagine a cui sei molto legato (ma ci serve poi la foto)?
“Qualche anno fa ho iniziato ad appassionarmi alla fotografia. Scatto quasi esclusivamente ai concerti, non solo nostri. Nel 2016 mandai una mia foto al concorso internazionale Jazz World Photo di un contrabbassista immaginifico anche se non proprio incasellato in quel mondo musicale, Daniele Roccato (ndr. foto di copertina). Vinsi il terzo premio e fui premiato al Festival Jazz di Trutnov in Repubblica Ceca tra i concerti di Miroslav Vitous e Al di Meola, che fecero il pienone nel teatro locale.
Mi scuso per lo sbrodolamento, ma il punto di vista di chi organizza concerti è sempre quello di colui che si preoccupa di far viaggiare, ospitare, incastrare, gestire artisti e altre figure fondamentali. Per una volta sono stato dall’altro lato dell’organizzazione, servito, riverito e pure coccolato e devo ammettere che di là non si sta affatto male…”.
Tornando a Area Sismica, cosa significa fare il direttore artistico di uno spazio come il vostro?
“Cerco di resistere tra un concerto e l’altro, perché i rischi economici, le infinite beghe burocratiche, i bandi a cui concorrere, i preventivi e i consuntivi e altri aspetti seccanti dell’organizzazione fanno emergere sempre prepotentemente la domanda “ma chi me lo fa fare?”. Poi arriva il giorno del concerto e con lui la risposta alla domanda. Cerco anche di non cadere nella trappola nostalgica. È un pericolo che mi prefisso di evitare il più possibile. Con l’aumentare dell’età, il potere evocativo della musica è stato “fatale” per la curiosità di tanti appassionati e addetti ai lavori”.
Ci racconti un socio I-Jazz che ti piace per la sua programmazione?
“Tra i soci sicuramente Novara Jazz, non solo perché abbiamo condiviso qualche concerto, ma perché offre un panorama variegato del mondo jazz, un tentativo lodevole per una struttura come la sua di avvicinare gusti più legati ad ambiti rassicuranti a musiche più votate ai contesti attuali”.
Ci puoi segnalare tre nomi interessanti nel panorama del giovane jazz italiano?
“Tutta la scena giovane napoletana è molto interessante, da Stefano Costanzo ad Antonio Raia, Renato Fiorito, Renato Grieco, Umberto Lepore e tanti altri. Spostandoci nel resto d’Italia, mi piace molto Francesco Massaro. Per fuoriuscire dagli steccati di genere, ritengo che nell’ambito della musica contemporanea i giovani italiani, sia compositori, sia interpreti, siano tra i più grandi a livello mondiale”.
Quali azioni dovremmo fare, a tuo parere, per portare più musicisti italiani nel mondo?
“In ambito jazz le dinamiche sono tante e diverse l’una dalle altre. In quello mainstream immagino che la concorrenza sia fortissima e legata a schemi assimilabili a quello dello showbiz. Vedo che ci sono musicisti italiani sempre più noti e internazionalmente riconosciuti nei mondi musicali meno etichettabili che possono appartenere anche a quello jazz. Vi sono festival intitolati al jazz in giro per il mondo che si sono svecchiati aprendosi a percorsi meno definiti, che potrebbero essere coinvolti da azioni di promozione o di semplice divulgazione da parte di I-Jazz.
Ti viene in mente, invece, una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
“Non so se vi sono le risorse, ma, viste le connessioni e le sinergie dimostrate, pianificare tournée in periodi definiti con largo anticipo potrebbe innescare possibilità reali di circuitazione. So che si sta già facendo promozione a progetti definiti, l’idea è quella di avere un approccio più da vero e proprio promoter per artisti che ancora non ne hanno uno”.
Se il Ministro Franceschini ti dicesse: “posso esaudire un tuo desiderio”, cosa gli chiederesti?
“Direi di adottare criteri di supporto più legati agli aspetti artistici e divulgativi e meno a quelli meramente economici/numerici o votati al grande evento. I grandi comunicatori del nulla e i campioni mondiali di bandi pubblici non scompariranno mai, ma si dovrebbe dare più peso alle commissioni giudicanti, che dovrebbero essere tutte composte esclusivamente da esperti qualificati.
Penso che questi 31 anni di Area Sismica siano un esempio di come le politiche culturali hanno un grande effetto sul territorio quando sono frutto di un investimento a lungo termine, di una visione che vada oltre al facile consenso dell’eventone, che, per carità, dovrà pur esserci, ma non può essere l’unico fattore in campo”.