Pubblicato il 17/01/2019
Compositore, direttore d’orchestra, contrabbassista e violoncellista, docente, direttore artistico, architetto, Paolo Damiani è una delle basi portanti del jazz italiano. Lo abbiamo incontrato per parlare con lui del suo festival – Una striscia di terra feconda -, di didattica, del rapporto tra giovani e jazz e molto altro.
La musica jazz è tutta “una striscia di terra feconda” o mi sbaglio?
“Dipende, può anche rappresentare un luogo di conservazione, ove la replicazione di repertori obsoleti e la reiterazione di vuote formule, che nulla hanno a che fare con la creatività, prendono il sopravvento. Il festival Una striscia di terra feconda, al contrario, è nato per provocare incontri nuovi e rischiosi tra musicisti italiani e francesi, la frontiera non è una trincea da presidiare erigendo muri d’acciaio, ma un passaggio di idee e di energie da nutrire nell’accoglienza e nella ricerca dell’altro. Una striscia feconda, appunto”.
Rappresenti questo settore a 360°: musicista, direttore d’orchestra, compositore, docente, direttore artistico. I ‘pro’ e i ‘contro’ di ogni faccia?
“Mah, in realtà mi annoierei a fare solo una cosa, e i pro di ogni attività, messi insieme, rendono la vita, in generale, non solo artistica, assai soddisfacente. I ‘pro’? Il piacere di suonare con artisti stimolanti, dirigere giovani talenti pieni di energia e rubargliene un po’, scrivere musica sorprendente, incontrare emozionanti intelligenze nello scambio della didattica, immaginare festival e rassegne che siano dalla parte dei musicisti e del pubblico. I ‘contro’, basta organizzarsi per evitarli: da tempo ho deciso di non suonare con persone troppo innamorate di sé e poco propense all’ascolto, di non insegnare a gente non abbastanza motivata, di non programmare gruppi che non mi piacciono, benché sulla carta possano garantire forte affluenza di pubblico”.
Parliamo del festival: ad agosto abbiamo discusso della sua ventunesima edizione, nel 2019 arriverai a ventidue edizioni di un festival che si mantiene sempre su alti standard qualitativi e d’avanguardia. Hai già idea della direzione che prenderà questa nuova edizione?
“Nel luglio prossimo faremo concerti anche a Palestrina, nello splendido scenario del Museo archeologico nazionale e presentando i trii di Roberto Ottaviano e di Théo Ceccaldi. In settembre ci sposteremo a Villa d’Este, per accogliere Jacopo Ferrazza che invita Camille Bertault, splendida voce francese, il nuovo trio di Franco D’Andrea e un duo inedito, Daniele Roccato e Pascal Contet. Poi, dall’8 al 12 settembre, cinque giorni a Roma, tra Casa del Jazz e Auditorium Parco della Musica. Come sempre, largo spazio ai giovani, al Premio Siae (suoneranno i gruppi dei primi tre classificati al Top Jazz nuovi talenti, promosso dal mensile Musica Jazz: Federica Michisanti, Giampiero Locatelli e Cecilia Sanchietti), alla Residenza progettata con Midj, ambasciata francese a Roma e Institut Français Italia: insieme a François Corneloup suoneranno quattro musicisti italiani selezionati tramite concorso nazionale, i vincitori scriveranno una composizione ad hoc. Tra i nomi di punta del programma, Pieranunzi, Terrasson, Riondino, Giuliani, Ceccaldi, Séva, Girotto, Montellanico, Godard, Graziano, Marcotulli, Benita, Gatto e molti altri”.
Quali sono, secondo te, i punti di forza di un festival jazz oggi?
“Credo che ogni festival – di jazz, teatro, cinema, danza etc – dovrebbe per statuto evitare di ripetere il già sentito. E inventarsi qualcosa di sorprendente, emozionante, profondo. Produzioni originali, residenze, incontri rischiosi, progetti intermediali, spazio a giovani e a proposte singolari. Spesso invece assistiamo a improbabili omaggi in cui tutto viene declinato in jazz – da Bach a Morricone, per intenderci – con risultati dubbi sotto il profilo estetico, e se vogliamo anche etico…”.
Giovani e jazz, non parlo di musicisti, ma di pubblico: è un binomio possibile?
“Sembra difficile, ma si tratta di una scommessa da giocare e vincere. Noi musicisti abbiamo la responsabilità di porci il problema, seriamente. Tutto deve partire dalla scuola dell’obbligo, servono sinergie che portino i musicisti negli edifici scolastici, per raccontare il jazz e farlo fare ai più piccoli, giocando con l’improvvisazione e la conduzione chironomica, possibilmente non in palestra ma in uno spazio attrezzato con gli strumenti musicali e idoneo acusticamente. Con Luigi Berlinguer e con il Comitato per l’apprendimento pratico della musica ci stiamo lavorando da 20 anni, ora la Federazione Nazionale del Jazz Italiano, presieduta da Paolo Fresu, dopo il riuscitissimo convegno bolognese “Il jazz va a scuola’”, sta varando un progetto che ha appunto lo scopo di coinvolgere le scuole italiane in una profonda revisione di metodologie e prassi musicali, sapendo anche che già esistono molti docenti assai preparati e che operano con passione e competenza, da anni”.
La domanda di rito: qual è lo stato di salute del jazz italiano?
“Torniamo alla tua prima domanda… Vedo luci e ombre. Da molti punti di vista mai stato meglio: ci sono tantissimi giovani preparati e disposti a cercare nuove ipotesi narrative, e grandi Maestri come Trovesi, Intra o Rava, che suonano con la freschezza e l’energia dei vent’anni, tra l’altro spesso circondandosi di giovani. In mezzo, tanti musicisti che assicurano ampia diffusione della musica che più amiamo, con punte di eccellenza note in tutto il mondo. Tuttavia mi piacerebbe che i festival e i club rischiassero di più, non puntando solo sui soliti nomi e/o omaggi ma proponendo musiche più sperimentali, meno consolatorie. E che alcuni musicisti fossero meno dogmatici e talebani, aprissero le orecchie e apprezzassero quante meraviglie si trovano ai margini del jazz, sui bordi in cui il linguaggio collassa e ci si trova a inventare suoni inauditi, nelle ibridazioni e nelle rotte di collisione: pensa che in giro c’è gente – spesso dilettanti – che non considera jazz il cosiddetto free, giganti come Coleman e Ayler per capirci. O che disprezza Braxton o Berne, tanto per fermarci ai sassofonisti. Mi piacerebbe vedere più musicisti ai concerti di jazz, come spettatori.
Vorrei che nelle scuole, Conservatori o altre realtà equiparate o private, il jazz fosse insegnato con maggiore creatività e meno regolette, nel massimo dell’apertura dei metodi e delle pratiche; bisogna incentivare la ricerca artistica e valorizzare il talento di ogni allievo, non costringendo tutti nello stesso programma e andando al di là di griglie e monte ore, gabbie che impediscono alle menti di volare: ti ricordi Bird?”.