Pubblicato il 19/03/2018
La Italy Jazz Network è una delle associazioni alla base della Federazione Nazionale “Il Jazz Italiano” e raccoglie il lavoro e le voci delle agenzie di management e degli agenti del settore. Abbiamo continuato il nostro focus su IJI con Vic Albani, presidente di IJN e, per tutti, volto, anima, testa e cuore di Pannonica, con il quale abbiamo parlato di ciò che è successo a febbraio e di cosa ci dobbiamo aspettare nel prossimo futuro; ma anche del lavoro del manager oggi e molto altro.
Il 13 febbraio scorso è nata la Federazione Nazionale “Il Jazz Italiano”. Dopo 10 giorni è stato firmato un protocollo d’intesa con il MiBACT volto alla valorizzazione e alla stabilizzazione del settore. La Italy Jazz Network, che tu presiedi, come ha visto questo passaggio? Soprattutto alla luce del vento politico che sta inevitabilmente cambiando?
“Anche se può sembrare retorico ribadirlo, ciò che è accaduto è assai importante per il fatto (forse addirittura nuovo per l’Italia, dove ognuno sembrava pensare soltanto al proprio orticello) che si può finalmente parlare di un qualcosa di ecumenico quando si parla del jazz italiano.
Il fatto che tutte le realtà che hanno in qualche modo a che fare con il jazz nel nostro paese abbiano finalmente una casa comune nella quale poter confrontare esigenze di ogni sua componente e costruire palestre di discussione su ciò che può essere utile al settore è essenziale e fondamentale. Il tutto, per di più, davanti a quello che sembra palesarsi come un nuovo periodo buio per la cultura italiana in genere, che stava faticosamente uscendo da un momento particolarmente difficoltoso.
Purtroppo, come è ben noto, le forze conservatrici del paese non sono storicamente avvezze a comprendere le istanze che arrivano dalla cultura e che, invece, proprio di cultura potrebbe vivere assai bene. Basterebbe uno sforzo e una maggiore serietà nel comprendere meglio ma, da questo punto di vista, sono purtroppo piuttosto pessimista poiché non credo che esistano, in forze diverse da quelle afferenti a una parte diciamo modernista di sinistra italiana, serie capacità di prendersi cura delle sorti di tutto ciò che non sia cultura in qualche modo classica del nostro paese”.
Italy Jazz Network è l’associazione delle agenzie e dei management italiani afferenti alla musica afro-americana e di qualità. Il concetto di rete sembra essere la base per blindare il futuro. In cosa sarà forte e propositiva la vostra rete?
“La risposta può essere soltanto più ampia e filosofica. Si potrebbe finalmente far comprendere a tutti che il ruolo di un management o di una semplice agenzia di booking non è ciò che da sempre è stato analizzato in questo paese in un’ottica direi “mafiosa”; la presenza di una persona che cura la vita artistica di un musicista con tutto ciò ad essa collegato e collegabile, è sempre stata vista come una scelta furba e “tangentizzata” nelle forme usuali di un rapporto di lavoro. La parte esecrabile di tutto ciò è che – specie in passato – sono stati proprio gli artisti a far emergere la situazione rendendola addirittura problematica, specialmente nell’ambito della circuitazione delle proposte jazzistiche.
Oggi, sotto il cappello di questa affermazione, c’è una realtà finalmente sdoganata da certi pregiudizi, pronta a far comprendere la necessità di una seria politica di intenti comuni nell’ottica di una necessaria industrializzazione culturale. Da qui si deve partire per creare una reale piattaforma di lavoro, come quelle che ci insegnano fuori dal paese. E l’aiuto non sarebbe soltanto circoscritto alle dirette esigenze dell’artista, ma anche alle problematiche che lo stesso incontra nelle varie situazioni fiscali, previdenziali o all’estero, dove – non esistendo gli stessi parametri – spesso ci si deve scontrare con regolamentazioni a volte opposte a quelle che normalmente si incontrano in casa propria”.
Quanto è difficile ad oggi il lavoro del manager? Cosa è cambiato dagli anni ’90?
“Il lavoro è oggi immensamente più frastagliato e difficile. Sarebbe facile rispondere con una semplice similitudine, confrontando il presente con ciò che avveniva sino a una dozzina di anni fa quando un direttore artistico poteva chiamarti chiedendo di mettere a disposizione il progetto di un “grande” nome, aggiungendo a questo (come secondo set) anche un ulteriore nome che potevi proporre. Telefonate del genere non ne riceviamo più, visti gli attuali chiari di luna i pochi festival rimasti attivi e i nuovi nomi che li dirigono, sono costretti a non rischiare, premendo solo sul nome di punta o sulla moda del momento. Ovvio immaginare che chi ci rimetta sono proprio le realtà artistiche che dovrebbero fornire il giusto ricambio generazionale”.
In questi ultimi anni, anche a livello politico, è stato fatto tanto per promuovere l’immagine del jazz italiano globalmente, non solo veicolata attraverso i singoli artisti. Dove pensi che dovrebbero essere concentrati gli sforzi e le economie nel prossimo futuro?
“Ciò che è stato fatto è sicuramente encomiabile e importante ma – almeno personalmente – non mi basta. Credo sia innanzitutto necessaria un’azione imponente a livello di ri-educazione all’ascolto musicale che debba necessariamente partire dalla scuola. Solo così avremo la speranza di rivedere ai concerti le generazioni giovanili che oggi, in maniera crescente, mancano all’appello nelle situazioni concertistiche, ma anche nella semplice richiesta di fruizione musicale. Altrettanto ovvio è avviare una promozione di quella che potremmo chiamare “musica intelligente” nei canali dei mass-media, a partire da quelli Rai, potenziando ciò che oggi è nelle mani di un manipolo di “scienziati” a Radio3”.
Qual è, secondo te, l’immagine del jazz italiano all’estero?
“Dobbiamo essere necessariamente franchi e coerenti. A fronte di un vago, sebbene riconosciuto valore, delle nostre proposte, la conoscenza del jazz italiano all’estero è ancora troppo poca cosa per chiare difficoltà di veicolazione e/o di proposta alternativa alle usuali offerte, spesso dettate da scelte nazionalistiche. Se l’Italia è nella situazione che tutti conosciamo, dal punto di vista jazzistico in generale, non è che all’estero possano cantare strofe di festa. In molti paesi esteri vi è stato una sorta di livellamento generico, collegato all’economia generale che gravita attorno alle potenzialità dello spettacolo.
Si lavora in modo più “povero”, visto che la maggioranza di musicisti, promoter, teatri e anche maestranze hanno accettato compensi inferiori, ma potendo contare su un lavoro più costante. Una parte di questa condivisione dovrebbe essere interpretata anche alle nostre latitudini e la neonata Federazione dovrebbe farsi carico di comprendere sino in fondo anche questi importanti aspetti collegati. Il problema poi delle poche etichette discografiche rimaste attive anche all’estero e che vivono le proposte italiane fuori dai loro canoni commerciali fa da ciliegina sulla torta finale”.
Giulia Focardi