Pubblicato il 15/07/2022
Trent’anni e dimostrarli tutti. Per la determinazione, il coraggio e la consapevolezza che spaziare verso territori all’apparenza lontani anni luce dalla musica è una sfida che va percorsa, costi quel costi, soprattutto se ha a che fare con una certa ‘ecosostenibilità’. E’ l’istantanea che racconta meglio di tante parole Fano Jazz By The Sea, il festival organizzato da Fano Jazz Network in collaborazione con il Comune di Fano, che dal 22 al 31 luglio accende i riflettori sull’edizione numero trenta, con l’entusiasmo e la passione di sempre. La Rocca Malatestiana, l’Arco d’Augusto, la Pinacoteca San Domenico, il Bastione San Gallo, sono solo alcuni dei luoghi che in città ospiteranno oltre 40 concerti e 200 artisti, con una predilezione quest’anno per la scena jazz britannica. Per saperne di più abbiamo raggiunto il direttore artistico Adriano Pedini.
Iniziamo dalla fine: cosa vorresti che l’ultimo spettatore del concerto che conclude Fano Jazz by the Sea 2022 ti dicesse incontrandoti all’uscita?
Direi: “Non me l’aspettavo, è stata una piacevole sorpresa” e che vada via con un bel sorriso. Sarebbe la più grande soddisfazione!
Trent’anni sono un traguardo importante per un festival: c’è qualcosa che non è mai cambiato in questi anni, un punto fermo? E quali sono state le ‘conquiste’ e i traguardi, più o meno inaspettati, arrivati lungo il percorso?
Ciò che non è cambiato è senz’altro la volontà di mantenere il festival con una propria dignità e identità culturale, senza lasciare spazi a proposte dai connotati più commerciali; operare scelte coraggiose ben coscienti di assumersi un rischio culturale. Credo che la conquista più importante, e sottolineo non affatto scontata, sia l’aver raggiunto o meglio dire conquistato un’autonomia gestionale che ci permette ancora oggi di disegnare un festival secondo una progettualità tutta nostra, di cui ne siamo responsabili nel bene e nel male, spostando la visione del festival anche su territori che potrebbero sembrare aver poco a che fare con la musica.
Ci anticipi qualcosa sulla British Invasion che si riverserà su Fano nei giorni del festival?
Per questa trentesima edizione che mi auguro possa segnare in ogni caso una svolta, ho rivolto il mio interesse soprattutto verso ciò che attualmente si muove nella scena artistica del jazz britannico, ritenendo che sia una musica aperta e globale rivolta al futuro, capace di parlare direttamente e indirettamente della società di oggi.
Vanno in questa direzione le scelte artistiche come: i Sons Of Kemet, la cui proposta è un jazz sicuramente afrocentrico, un concentrato di puro istinto, di ribellione; la sassofonista Nubya Garcia, originaria di Camden Town, e con radici afrocaraibiche, ma soprattutto figlia di quella Londra musicalmente così eterogenea e complessa; i GoGo Penguin, con il loro non-jazz a simboleggiare l’esigenza stessa di volersi liberare dalle etichette e dai preconcetti sul genere musicale; i Neue Grafic Ensemble rappresentanti di quel multiforme universo jazz londinese con il suo caratteristico mix di broken beat e grime con un’incursione nell’house e nell’hip-hop.
La stessa Sona Jobarteh, seppure di origini gambiane, ha base a Londra, dove ha mescolato tradizione, blues e afropop, con risultati impressionanti come sottolinea Robin Denselow, e che riflette il suo impegno sociale e umanitario a favore dei bambini africani e della loro educazione, tanto da meritarsi importanti riconoscimenti da parte dei vertici delle Nazioni Unite e dell’UNICEF.
E tra i giovani talenti made in Italy, nomi da non perdere di vista?
Preferisco non fare nomi perché la lista sarebbe troppo lunga e rischierei di dimenticare qualcuno. Posso dire, però, che da sempre il nostro festival ha un’attenzione particolare verso i giovani musicisti italiani a cui dedichiamo la sezione speciale Young Stage – New Project. Nel corso di tutti questi anni abbiamo presentato il fior fiore dei giovani made in Italy, alcuni dei quali oggi rivestono un ruolo di primo piano del jazz Italiano e non solo.
Domanda d’obbligo sull’impegno del festival all’insegna della sostenibilità: quali sono state le nuove sfide? Ci descrivi come è organizzato il Green Jazz Village?
La sfida green è partita tempo fa quando mi sono ritrovato a condividere quella che era una parola d’ordine “Take A Stand”, cioè “Prendi Posizione”, che si aggirava fra molti festival di varia natura per tutt’Europa. Invitava i festival a essere qualcosa di più di un semplice momento di intrattenimento, assumendosi una responsabilità sociale, facendosi interpreti di valori universali. Dal punto di vista più concretamente operativo, importantissimo è stato l’incontro con il progetto Green Fest della Fondazione Ecosistemi e in particolare con il suo direttore Silvano Falocco.
Da tutto ciò è nato nel 2017 il Green Jazz Village, cuore pulsante del festival e diventato ormai segno identitario della manifestazione, in cui si sviluppa il nostro concreto impegno verso il rispetto dell’ambiente e la sostenibilità. A partire dall’adozione di una check list in cui sono indicati i CAM (Criteri Ambientali Minimi) e cioè tutte quelle buone pratiche per un festival sostenibile, da condividere con il pubblico. Tutto ciò ci ha portato a essere promotori, insieme a I-Jazz, della prima rete nazionale di festival jazz a vocazione green, Jazz Takes The Green che ad oggi conta più di 30 aderenti.
All’interno dei suoi spazi, tutti arredati con materiali ecosostenibili, oltre ai concerti delle sezioni Young Stage e Cosmic Journey, è presente quella che abbiamo ribattezzato un’Area Chill (area rilassante) con installazioni artistiche, info point, Yoga & Jazz, nonché il progetto Jazz For Kids con attività didattiche rivolte ai più giovani, quali il campus musicale, che prevede la formazione di un’orchestra composta di 40 tra bambini e ragazzi; qui ha anche sede l’Area Baby Frindley per i più piccoli.
Tornando ‘all’incontro’ con lo spettatore della prima domanda: quanto ti è mancato il rapporto con il pubblico in questi due anni di restrizioni? E su cosa pensi sia importante puntare per ampliare il pubblico del jazz?
Anche nel periodo più complicato, a causa della pandemia da Covid-19, la nostra attività, attraverso il festival e non solo, non si è mai fermata. Abbiamo messo in campo una forma di resilienza che ci ha portato a progettare nuove proposte musicali, penso a Live In The City e a Jazz Winter, caratterizzato dai concerti sui balconi. Il nostro rapporto con il pubblico pur contingentato – abbiamo registrato una flessione di circa il 50% in meno rispetto al 2019 – non si è interrotto, e siamo riusciti anche a garantire lavoro e occupazione a tutta la filiera produttiva degli eventi, anche al comparto artistico, tutto italiano.
Per quanto riguarda le strategie per l’ampliamento del pubblico, credo proprio che non esistano delle ricette. A mio avviso occorre connettersi con la complessa realtà in cui viviamo, utilizzando nuovi strumenti di comunicazione per intercettare quelle fasce di pubblico giovane che mancano al mondo del jazz nel suo complesso.
Passato, presente, futuro del jazz: tre consigli di ascolto firmati Adriano Pedini?
Assai difficile dare consigli, ma se proprio devo, direi per il passato, e non solo, l’opera omnia di Miles Davis dal suo esordio alla fine dei suoi giorni. Per il presente fare attenzione alla nuova scena musicale inglese. Per il futuro affidarsi alla straordinaria capacità del jazz di trasformarsi.
Fano Jazz By The Sea è organizzato da Fano Jazz Network in collaborazione con il Comune di Fano, con il sostegno di MIC-Ministero della Cultura, Regione Marche e Fondazione Carifano.
Link al programma Fano Jazz By The Sea 2022
Scheda socio I-Jazz Fano Jazz Network