Pubblicato il 18/10/2017
Sono passati trentacinque anni dalla prima edizione di Catania Jazz e oggi, una delle realtà più importanti della nostra penisola musicale, si fa sempre più grande e strutturata, riuscendo a mantenere il monito che ne ha caratterizzato la storia: il jazz è una musica libera. Ne parliamo con Pompeo Benincasa, direttore e anima della rassegna.
35 anni di vita per una delle realtà più virtuose e durature del jazz italiano: cos’è oggi Catania Jazz?
“E’ una specie di bandiera qui in Sicilia, così ci vedono molti tra quelli che ci seguono. In un territorio dove la politica controlla e vuol controllare tutto, si può salvaguardare la propria indipendenza, anche se questa si paga a caro prezzo. Quando io dico in giro che in tutti questi decenni Catania Jazz non solo non ha avuto alcun contributo dalle proprie amministrazioni locali, ma addirittura ha sempre dovuto pagare i luoghi in cui ha svolto la propria attività, tutti rimangono sbalorditi e ne chiedono le ragioni. In 35 anni si sono alternati sindaci di qualunque colore politico: siamo una realtà indipendente, è l’unica soluzione possibile.
Abbiamo mostrato a tanti la strada, anche a costo di enormi sacrifici. Ma negli anni Catania Jazz è sempre cresciuta, anche quando ha rischiato di collassare. Nei momenti più difficili, il pubblico del jazz siciliano si è stretto a noi e ha consentito che l’associazione continuasse a vivere. Voglio portare un esempio: nel 2016 la Regione ci ha concesso un contributo di soli 16mila euro, che in termini percentuali era il più basso tra le associazioni musicali finanziate. Abbiamo scritto un pezzo sulla nostra pagina Fb (seguita da quasi 23000 persone) e abbiamo chiesto al nostro pubblico se prendere quei soldi o rifiutare. Avevamo diviso i contributi concessi per il numero di spettatori e abbiamo detto: “per la nostra Regione ogni volta che uno spettatore va ad ascoltare un concerto di musica classica vale 100, 200 euro, mentre ogni volta che viene a vedere un nostro concerto ne vale 1,33″. Anche grazie ai suggerimenti e alla forza del nostro pubblico abbiamo rifiutato, nonostante versassimo in condizioni economiche critiche. Ecco cos’è diventata Catania Jazz”.
Quindi il pubblico è stato e continua a essere la vostra vera forza?
“Senza dubbio. E aggiungo anche un altro esempio: cinque anni fa, siamo stati costretti a commettere un azzardo – cosa per cui si parla di noi anche in Europa – l’abbonamento al buio. Trovandoci sull’orlo della chiusura, abbiamo chiesto al pubblico di pagare l’abbonamento con un anno di anticipo, in cambio di uno sconto. In quel momento potevamo fornire solo il numero di concerti ma nessun programma e persino nessuna venue. La risposta è stata tale (dai 160 del primo anno siamo arrivati ai 623 della stagione in corso) che la nostra attività si è dovuta adattare al boom di abbonamenti, un successo che ci riporta indietro di più di 20 anni. Ecco così al MA ogni artista suona tre sere, come al Teatro ABC, che conta circa 900 posti. Credo che alla fine, per ogni concerto, potremo vendere non più di 70/80 biglietti. E siccome parliamo di jazz, si tratta di numeri veramente importanti.
Naturalmente, oltre la forte compartecipazione del pubblico alla nostra storia, non si raggiungono questi risultati senza la forza della proposta musicale. Basta vedere le programmazioni degli utlimi anni per rintracciare la nostra linea: ancoraggio alla storia della musica afro-americana, uno sguardo sempre attento a tutto ciò che si muove dentro e attorno al mondo del jazz, il costante tentativo di conquistare il pubblico giovanile, che è la scommessa di tutto il jazz e non solo italiano, il tentativo in forme varie di promuovere i musicisti a Catania e nella Sicilia orientale”.
Qual è l’impatto di Catania Jazz sul proprio territorio?
“Direi che il fatto di non essere un’associazione locale sia fondamentale. I risultati raggiunti sono possibili perché siamo da tempo un polo di riferimento e di attrazione per tutta la Sicilia orientale. Abbiamo decine di abbonati che risiedono a Siracusa, Ragusa, Messina e per i concerti importanti vendiamo biglietti anche in Calabria. Da sei anni replichiamo la stagione a Palermo come Nomos Jazz, dove lo scorso anno alla proposta di abbonamento al buio hanno aderito immediatamente in 300. I numeri di Palermo non sono ancora ai livelli di Catania, ma siamo fiduciosi di poterci arrivare nel prossimi anni”.
Quindi che aria si respira – parlando di jazz – in Sicilia?
“Questi dati ci parlano di jazz in buona salute, di un pubblico in crescita, si suona jazz in tanti club in tutta la Sicilia. Noi abbiamo sempre visto di buon grado la presenza di altri promoter e associazioni, e abbiamo pure creato un circuito regionale, senza mai pensare che la nostra presenza potesse essere esclusiva. Il limite è che questo fenomeno non gode di alcun sostegno vero in Sicilia. La Regione siciliana ha finanziato 45 associazioni nel 2017, soltanto la nostra per quanto riguarda il jazz, settore a cui va meno del 5% delle risorse totali. Tutti ci rendiamo conto che i soldi sono pochi e si dovrebbe fare una lotta tutti insieme per farli aumentare, ma nel persorso di questa lotta una più equa distribuzione sarebbe necessaria”.
Ricordi e musicisti memorabili di questi 35 anni di storia?
“Tantissimi, difficile sceglierne alcuni. Forse il compleanno di Dizzy Gillespie, al Metropolitan di Catania nel 1991, rimarrà nella memoria di tutti quelli che c’erano: le lacrime di Dizzy, la torta enorme che gli facemmo arrivare sul palco e lui che con un grande cucchiaio imboccava il pubblico in piedi, come il prete con l’ostia. Indimenticabile anche il concerto di Jaco Pastorius, l’ultimo dal vivo in Europa il 10 dicembre del 1986. Avevamo finito i 1760 biglietti del teatro e avevamo fuori circa 200 ragazzi venuti da ogni dove che imploravano, qualcuno addirittura piangeva per poterlo ascoltare. Non so come abbiamo fatto, ma ne facemmo entrare quasi 2000. Jaco stava benissimo, era con la moglie, volle dormire due notti a Taormina, ne rimase tanto affascinato che mi disse che sarebbe ritornato anche solo per una vacanza. Sogno che si sarebbe infranto nove mesi dopo nel modo che sappiamo.
Un altro grande amico di Catania Jazz è stato Joe Zawinul. Ci capitò di fare un concerto con lui nel 1994 e sempre nel giorno del suo compleanno, pianse. Bellissimi i suoi racconti sui tour con Dinah Washington nei club neri americani, dove non lo volevano fare suonare, e sul modo con il quale la band lo proteggeva all’uscita dai club. Mi fa pensare anche alle fughe dal retro dei club che mi raccontò Ornette Coleman, per scappare da quelli che lo aspettavano all’uscita per picchiarlo per la musica che faceva. Fughe non sempre andate a buon fine. Eh sì, fare il jazzista a volte è stato un mestiere pericoloso, come in generale occuparsi di jazz in Italia”.