Pubblicato il 10/02/2021
10 febbraio 2021: abbiamo raggiunto Paolo Fresu nel giorno del suo 60esimo compleanno. Un giorno importante, che Paolo ha deciso di festeggiare nel modo migliore, attraverso la musica, la sua musica, un regalo per se stesso ma soprattutto per il vastissimo pubblico che lo segue: un concerto “Musica da lettura” che verrà trasmesso sul suo canale Youtube (qui il link) e in prima serata su Rai5 e un triplo nuovo disco dal titolo “P60LO FR3SU” (qui per scoprirlo in digitale).
La nostra intervista ha cercato di mostrare tutti i lati di Fresu, il musicista, il direttore artistico, il discografico, il presidente di Federazione, l’uomo di cultura; un viaggio nel suo pensiero, nella sua esperienza, nella sua visione che ci rende ogni volta migliori.
Il 2021 è già iniziato da un mese ma ci portiamo dietro ancora tutto il peso dell’anno passato: da musicista, come lo hai vissuto?
“Durante la prima fase tutto era nuovo. Nel dolore delle immagini trasmesse in tv, delle notizie che arrivavano dai giornali e degli amici che il Covid si è portato via c’era da una parte il prendere le misure con un nemico invisibile e dall’altra il cercare di trovare un’altra dimensione di vita e di tempo che potesse dare un senso nuovo e diverso al nostro essere artisti. I concerti dai balconi delle sei del pomeriggio ci hanno fatto prendere coscienza del nostro ruolo nella società e, allo stesso tempo, tutto ciò ha evidenziato una fragilità legata alla precarietà del nostro mondo e alla nostra professione. Questo ci ha spinto verso la petizione “Ve le Suoniamo!” assieme ad Ada Montellanico e Simone Graziano. Petizione che ha raccolto decine di migliaia di firma e dalla quale è nato il FAS (Forum Arte e Spettacolo) che oggi raccoglie le istanze del mondo dei lavoratori del nostro settore affinché queste si possano portare sui tavoli del Governo.
Ma era anche necessario costruire un ponte con gli altri e l’unico modo per uscire dalle nostre rispettive case era la rete. Pertanto mi sono munito di una scheda audio e ho iniziato a registrare a casa musica. A volte da solo e spesso con altri musicisti che, a loro volta, costruivano musica in altre case facendo nascere dei video che puntualmente postavo sui miei social e che sono state seguite da un largo pubblico.
Il 14 di giugno però, esattamente il giorno prima della ripresa ufficiale dei concerti, ho salutato tutti dicendo che era stato tutto bello ma che la mia vita è suoi palchi e suonando con gli altri.
In questa seconda fase, dalla fine di ottobre ad oggi, le distanze erano già prese ma è più duro. Perché si è sfiancati dai mesi trascorsi casa in primavera e perché non s’intravvede una ripresa seppure il nemico abbia ormai un nome e un vaccino che tarda ad arrivare a tutti.
Fortuna vuole che ero proiettato verso l’anniversario dei miei sessant’anni e avevo da registrare due dischi nuovi (il primo con Daniele di Bonaventura e Jaques Morelenbaum e il secondo sulla musica di David Bowie con Petra Magoni, Gianluca Petrella, Francesco Diodati, Francesco Ponticelli e Christian Meyer) da aggiungere a un vecchio lavoro del 2001 (con David Linx, Diederik Wissels, Palle Danielsson e Jon Christensen) producendo un triplo cd che è uscito proprio oggi. Oltre a questo un concerto/evento che abbiamo registrato nella prestigiosa biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna con musicisti e attori. Questo sarà trasmesso oggi, data del mio sessantesimo compleanno, sia sul mio canale ufficiale YouTube che in prima serata su Rai5.
Insomma, non ci stiamo annoiando ma mi preoccupa il mondo per quanto il mio atteggiamento sia sempre costruttivo e propositivo”.
Facciamo un passo a lato: da direttore artistico hai realizzato una straordinaria edizione di Time in Jazz, in agosto, nonostante le restrizioni e il distanziamento. Qual è stata la risposta del pubblico?
“La risposta di pubblico è stata incredibile e non avevamo dubbi come non abbiamo avuto mai alcun dubbio sul fatto che il festival si sarebbe fatto e che si sarebbe fatto in sicurezza. Otto giorni con circa 50 concerti in oltre 20 location con in più le attività per l’infanzia, le presentazioni dei libri, il cinema… Non è stato un festival né di ripiego né al risparmio e ciò ha ripagato gli sforzi. E mentre negli stessi giorni in Costa Smeralda impazzavano e impazzivano le discoteche da noi non c’è stato nessun caso di Covid. Bisognerebbe raccontarlo al Comitato Scientifico che, con tutto il rispetto per il proprio ruolo e la responsabilità della quale è investito, decide cosa fare di noi forse senza conoscere troppo il nostro mondo e senza interpellarci…”.
Come è nato Time in Jazz?
“Time in Jazz è nato nel lontano 1988 e questa estate ha compiuto 33 anni. Io ero molto giovane e le idee non erano molte… Sapevo però che già si era fatto un festival a Sant’Anna Arresi che però, rispetto a Berchidda, poteva contare su un turismo balneare che noi non avevamo. Solo dopo ci siamo accorti che anche Berchidda e il suo territorio avevano delle bellezze neanche tanto nascoste. Il Monte Limbara che separa il Logudoro dalla Gallura, un lago, una campagna straordinaria, cieli bassi come in Africa e soprattutto gente semplice, schietta e ospitale.
L’unica certezza era che si voleva fare un festival che non fosse né occasionale né avulso dal territorio e dalla sua cultura. E che avesse un’originalità capace di portare a Berchidda quel pubblico che aveva occasione di vedere un grande artista a Perugia, Roma o Pescara. Per la particolarità del luogo e della gente eravamo certi che quell’artista, da noi, si sarebbe potuto relazionare in maniera diversa e che dunque, nel grande palco di Piazza del Popolo e negli altri ’non palchi’ sparsi nei 18 Comuni del nord Sardegna, avrebbe avuto un senso vedere e sentire i grandi artisti che magari aveva suonato la settimana prima in una città del continente. In quanto il nostro luogo, così pregnante, li avrebbe portati a suonare in modo diverso. Di fatto così è stato e quel ‘manifesto’ di tre pagine di allora, scritto con una Olivetti Lettera 32 e che ancora conservo non ha tradito quella visione”.
Ci racconti come nasce l’idea di “P60LO FRESU – Musica da Lettura” che oggi sarà trasmesso sia in rete che in televisione?
“Musica da Lettura è un concerto/evento registrato in quello straordinario luogo che è la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna dove è nata la prima Università del mondo. Questo ha per me molti significati visto che Bologna è da decenni la mia città adottiva e che la trovai fermandomici (senza averlo deciso…) per iscrivermi al Dams per prendere una laurea in Etnomusicologia con Roberto Leydi. Anche se, alla fine, ho dato solo l’esame di Teoria e Solfeggio con Clementi.
E poi perché quella biblioteca incarna la conoscenza e la storia, l’apertura e la riflessione oltre che la dialettica. Tutte cose che ritengo siano fondamentali per l’uomo e l’artista. A sessant’anni non è ancora tempo di bilanci ma piuttosto si sente il bisogno di raccogliere i pensieri. Non credo ci sia nient’altro di prezioso come un libro che incarna il sapere e alla quale scrittura spesso contribuiscono le storie di ognuno. E’ la metafora della musica oltre che del jazz, ed è su questa che ho costruito in questi lunghi anni la mia idea di musica societaria e di condivisione.
Pertanto ho coinvolto tanti amici, seppure non tutti. Del resto sarebbe stato difficile e impossibile… Ho scelto strumenti e formazioni che potessero rispettare quel luogo così intenso ma allo stesso tempo fragile.
Con la voce di Alessandro Bergonzoni, con il Quartetto d’archi Alborada dove suona anche mia moglie Sonia, con Daniele di Bonaventura, Dino Rubino e Marco Bardoscia che da tanti anni sono compagni di viaggio. O che perlomeno lo erano sui palchi prima che la pandemia ci costringesse a chiuderci nelle nostre case e a cancellare tutti i concerti.
E’ stato doppiamente bello rivederci a fine gennaio per registrare a Bologna. Distanziati come impongono le regole ma vicini con la musica. E’ altrettanto importante avere fatto lavorare al tempo della pandemia e in sicurezza circa 30 persone per un progetto prodotto dalla Tǔk Music e totalmente finanziato da virtuosi sponsor privati legati al territorio bolognese ed emiliano nonché fortemente voluto dal Comune di Bologna e patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna”.
Da “Cinquant’anni suonati” a oggi: quante cose sono cambiate in questi dieci anni e quali sono stati, nella tua carriera di musicista e direttore artistico, i passaggi più importanti?
“Non so cosa sia cambiato da quel tour di 50 giorni consecutivi con 50 concerti in luoghi straordinari della Sardegna e con 50 progetti diversi. So solo che il tempo è passato con una velocità impressionante e che questo è un bene. Perché il tempo non passa per tutti e quando passa vuole dire che ci siamo ancora e che abbiamo tante cose da fare.
Quando qualcuno chiedeva a mio padre come andava lui rispondeva “anzianando” visto l’uso del gerundio che noi sardi utilizziamo spesso. Ecco, finché si “anziana” va tutto bene…
Dovessi ripercorrere questi dieci anni direi che sono state fatte tante cose. La nascita del Jazz Italiano per le Terre del Sisma e della Federazione Nazionale Il Jazz Italiano, la nascita della mia etichetta discografica Tǔk Music che proprio nel 2020 ha compiuto dieci anni (avevamo un film pronto e una mostra delle copertine che non hanno potuto vedere la luce per via del Covid) e tante cose che riguardano la musica. La crescita dei progetti e dei gruppi, tante registrazioni e fortunatamente tanti concerti. E poi la scomparsa di mio padre e la crescita di mio figlio che ora ha tredici anni. Questi giorni sto dicendo in maniera scherzosa che i miei sessant’anni, al tempo della pandemia, valgono centoventi e che è per questo che sono ancora giovane. In realtà mi sento giovane davvero e ho una voglia matta di fare, di suonare, di dirigere festival, di divertirmi e di scoprire cose nuove. Diciamo che la noia non mi apparteneva a 50 anni come non mi appartiene adesso.
La settimana scorsa ho fatto un’intervista in rete a Enrico Rava organizzata da Officina Pasolini. Fa parte di un ciclo di incontri che farò a diversi artisti come Michel Portal, Omar Sosa e altri. L’incontro doveva durare un’ora ma Enrico ha parlato per due ore ed era uno spettacolo sentirlo. Potevamo stare li a chiacchierare per un giorno intero. E’ stato estremamente emozionante nonché istruttivo perché ha raccontato non solo la sua storia, ma soprattutto la filosofia con la quale la ha vissuta e la sta vivendo tuttora. E’ una vitalità contagiosa la sua e ciò evidenzia quanto la musica sia capace di mantenerci giovani e di farci vedere il mondo con occhi diversi e con la voglia di vivere e di raccontarci”.
Alla luce anche di questo lungo anno di pandemia, come sta cambiando, secondo te, la professione del musicista?
“Non credo si sia ancora in grado di dirlo se non sottolineando la gravità della situazione in cui versa il mondo dello spettacolo. Ciò non solo in Italia ma nel mondo.
C’è purtroppo il pericolo che venga rasa al suolo una intera categoria di professionisti se non si troveranno vie definitive che non posso essere solo quelle dei necessari, se non parziali e incompleti, ristori. Il Covid non ha fatto altro che portare a galla difficoltà che appartenevano al passato e che il Paese non aveva affrontato. D’altro canto anche noi abbiamo le nostre colpe perché siamo sempre stati cani sciolti nel fare i nostri interessi e nel non pensare al domani.
Forse abbiamo una visione troppo romantica e per certi versi anarchica della nostra musica dimenticando però che i nostri predecessori hanno sempre combattuto molte battaglie e che forse il jazz non sarebbe nato senza gli attriti della storia. Oggi la politica si è accorta che esistiamo ma è troppo tardi. Anche noi, per assurdo, ci siamo accordi che esistiamo come categoria e che si potrebbe essere tutti uniti per poter parlare con una voce più autorevole con la politica e con il legislatore. La stessa politica ha ammesso di non sapere quanti eravamo e cosa eravamo, ma noi stessi abbiamo individuato le ferite che ci siamo leccati per troppo tempo spesso puntando il dito contro gli altri. A ragione e a torto.
Oggi è tempo di riscrivere lo statuto dei lavoratori dello spettacolo e di chiedere di avere gli stessi diritti delle altre categorie. Intendiamoci, non vogliamo l’assistenzialismo. Vogliamo equità e democrazia, diritto e dignità.
Resta il fatto che la professione cambierà. Non per tutti e magari non per persone come me che ho le spalle più larghe di altri ma sarà una professione ancora più precaria e insicura. Molti si muoveranno sulla rete che di certo è utile ma che non può sostituire la musica dal vivo.
E’ come il mercato del disco fisico e digitale. Da qualsiasi parte noi si voglia andare e in qualsiasi modo si voglia consumare la musica bisogna che qualcuno la produca e dunque c’è bisogno di compositori e di autori, di strumentisti e cantanti, di garage dove provare, di studi di registrazione e di produttori… Insomma, cambierà il mercato con le sue tendenze ma la materia prima da vendere e da consumare sarà sempre la stessa”.
E il pubblico del jazz come è cambiato in questi anni?
“Questa è una bella domanda. Io sono convinto che il pubblico sia cresciuto ma la tipologia di pubblico cambia da paese a paese. E’ molto difficile disegnarne la personalità perché molto dipende dalle situazioni. L’età del pubblico del jazz è sempre più alta e questa aumenta più si va nel nord Europa. Si spera nei giovani e nella scuola ed è anche per questo che è nata l’Associazione il Jazz va a Scuola che afferisce alla Federazione IJI.
Bisogna dire che nei concerti al chiuso, soprattutto nei teatri, i giovani non vanno volentieri mentre sono presenti nelle manifestazioni festivaliere all’aperto. Soprattutto se queste si pongono il problema di programmare tutti i generi del jazz comprese le musiche che lo toccano tangenzialmente.
Finché ci sarà ancora gente, compresi alcuni musicisti, che passerà il tempo a discutere cosa è il jazz e soprattutto a pensare che è l’unica musica da ascoltare non si potrà pretendere che il pubblico cambi. A Time in Jazz siamo fieri di avere un pubblico composito, fatto di persone di tutte le età e noi siamo letteralmente entusiasti quando vengono i giovani. E non ci vergogniamo a programmare Ahmad Jamal a fianco di Fabio Concato oppure Nanni Gaias e Giuseppe Spanu, volontari storici del festival da quando erano bambini e oggi artisti maturati che in due non fanno cinquant’anni. Nel dopo concerto della piazza principale (quello che abbiamo sempre chiamato Jazzino), mettono insieme il jazz con l’elettronica, il funk, il soul e il chill-out. Chissà che questo anno non li si faccia incontrare con i musicisti berberi del Maghreb…”.
La Federazione Nazionale “Il jazz italiano”, che presiedi, compie tre anni: guardandoti indietro, in questi tre anni di lavoro associativo, riesci a fare un bilancio delle cose fatte e di quelle che restano da fare?
“In questi tre anni è stato fatto tanto e ciò è merito di tutti quelli che ci hanno creduto e che lavorano incessantemente alla sua crescita e alla crescita del jazz italiano. Forse neanche noi stessi eravamo coscienti di quando fosse necessario fare nascere questa realtà. Ricordo che quando andammo dal notaio per registrare lo statuto non ci eravamo neanche posti il problema di chi dovesse essere il Presidente… Avevamo corso talmente tanto per la sua costituzione (che ci avrebbe permesso dopo una sola settimana di firmare uno storico protocollo d’intesa con il MiBACT) che quello della presidenza era l’ultimo problema… Fu lì che mi fu detto fallo tu tanto cosa vuoi che sia l’impegno richiesto… Accettai di buon grado ma senza avere l’idea di quanta energie e tempo la cosa necessitasse.
E’ mia usanza annotare in un file tutte le attività e gli appuntamenti più importanti di IJI. Quando lo rileggo mi spavento per la ricchezza e la molteplicità di ciò che si è fatto.
Come molti sanno le remore sulla nascita della Federazione erano tante ma credo che oggi queste siano spazzate dai buoni risultati. Non ultimi quelli del mese di dicembre sulla scrittura del nuovo DM FUS e sul fatto che sia entrata la parola jazz che mai ci era stata prima di ora. Ma direi che forse, al di la di questi evidenti goal, la cosa più importante è che siano nate nuove associazioni sulla scia di I-Jazz e Midj (fotografi, jazz club, etichette e scuola) per rappresentare un mondo che è molto vasto e variegato.
Il vero motivo della nascita delle Federazione era infatti quello di coagulare il jazz italiano. Mi pare che ci si sia riusciti pur sapendo che la strada è lunga e tortuosa. Questo anno ci concentreremo, oltre alle altre varie cose, sulla organizzazione degli Stati Generali del Jazz Italiano che si terranno a fine settembre a Bologna. Sarà un’occasione importante per trarre un bilancio di questi tre anni ma soprattutto per capire tutti assieme (e non solo con coloro che fanno parte della Federazione) dove si dovrà andare intraprendendo il cammino su un percorso ben tracciato e con traguardi riconoscibili. Perché se non ci mettiamo in viaggio assieme non si arriva da nessuna parte. Immaginate l’orchestra di Ellington con solisti straordinari ma dove ognuno suona senza sentire l’altro…”.
Questo febbraio però ci porta un altro importante compleanno, gli 11 anni della Tǔk Music: come nasce la tua etichetta e quali obiettivi ti eri posto quando l’hai fondata?
“Lo dicevamo prima. La Tǔk è nata nel 2010 con l’obiettivo di produrre principalmente alcuni dei tanti valorosi giovani italiani. Ricevo ogni settimana tanti dischi e tanti master. Molti mi chiedono non solo un parere sulla musica ma di scrivere le liner notes o dei consigli su una possibile etichetta discografica. Rispondo puntualmente a tutti perché credo sia giusto, educato e importante e do consigli o rimando a una etichetta piuttosto che a un’altra. E’ importante perché non c’è cosa più terribile e disarmante del quando un giovane manda una mail o un master a qualcuno senza ricevere risposta…
A un certo punto mi sono “perché non faccio io una etichetta?”. E così è nata la Tǔk Music. Attenta anche alla grafica e alla sostenibilità ambientale. Volevo una etichetta che fosse una grande famiglia visto che io stesso sono artisti prima che produttore. Accompagnando così per mano i musicisti verso la professione e tessendo relazioni di contatti artistici in Italia e in Europa. A giudicare dai risultati ce la abbiamo fatta seppure ci sia tanto altro da fare.
E oggi la Tǔk è in buona parte anche la casa dei miei progetti discografici e anche del triplo cd dal titolo “P6OLO FR3SU” con le fotografie di Roberto Cifarelli e con la lista delle 60 parole importanti della mia vita. Un progetto complicato che abbiamo voluto realizzare nonostante il Covid. Sapendo che gli anniversari non aspettano…”.
Tǔk Music è anche portavoce di una eccellente giovane generazione di jazzisti italiani: quali criteri usate per selezionare le proposte che vi arrivano e quanto è difficile il mestiere del discografico oggi?
“Di rado selezioniamo le proposte che comunque arrivano numerose. Preferiamo in genere scegliere artisti che ci piacciono e con i quali condividiamo il pensiero artistico e di vita ma non disdegniamo i progetti che veramente ci colpiscono anche se, nella maggiore parte dei casi, non abbiamo purtroppo spazio per produrli. Nel momento in cui loro hanno un tema o una idea noi la avalliamo e attendiamo un master definitivo. Sono gli artisti a scegliere lo studio, il programma, la formazione e tutto il resto. Anche sulla copertina sono io in genere a scegliere alcune opere per poi passarle all’artista per avere un suo riscontro. Quando poi vuole un consiglio o un pensiero io ci sono ma non sarò mai io a dire cosa si deve fare. Questo per via di quella idea di fiducia che deriva dall’avere scelto un musicista in base al pensiero ancora prima che della musica. Perché la musica è soprattutto pensiero.
Il mestiere del discografico è difficile, ma io non mi ritengo un vero discografico. Ciò è di fatto un bene perché concede molta libertà nelle scelte. Facciamo ciò che ci piace e cerchiamo di farlo bene senza metterci problemi di investimenti e di economie. Sempre nel rispetto degli artisti, investendo su di loro ma mai chiedendo a loro di investire su di noi. Ci piace invece collaborare affinché il progetto sia un lavoro di squadra e sia totalmente condiviso. D’altro canto il mio collaboratore Luca Devito lavora bene con la rete dei distributori internazionali sia per il fisico che per il digitale. E Gianpietro Giachery fa un ottimo lavoro con la stampa. Solo che ora dovrei citare anche gli altri che stanno intorno all’etichetta sennò si offendono (ride ndr): Oscar Diodoro per le bellissime grafiche artistiche (prima di lui Benno Simma) e la mia agenzia Pannonica con Vic e Stefania. Non siamo in tanti ma sembriamo un’orchestra… senza contare tutti gli illustratori, i video maker, ecc”.
Quali azioni dovremmo fare, secondo te, per portare più musicisti italiani nel mondo?
“Bisogna che funzioni un Export Office che agevoli l’esportazione degli artisti che meritano. Ma che non piò essere una mera agenzia di viaggi. E’ necessario mettere in atto strategie di promozione che facciamo si che gli artisti che vanno all’estero possano suonare non solo per la comunità italiana ma che vengano apprezzati da un pubblico più vasto. Possibilmente suonando in rassegne, festival e teatri che fanno programmazione normale amalgamando così i programmi artistici tesi tra certezze e scoperte. E bisognerebbe mettere in atto degli incentivi perché gli artisti italiani costino meno ai festival stranieri esattamente come fanno gli Export Office di alcuni paesi europei che sono estremamente agguerriti e competitivi.
Anche la distribuzione internazionale dei dischi è importante. Il disco, seppure non lo si compri quasi più, è un fondamentale biglietto da visita molto utile specialmente ai giovani musicisti. E lo è anche la rete seppure in maniera diversa. Insomma, andrebbero perseguite tutte le strade perché i tempi sono cambiati, gli artisti sono molti più di prima e non tutti possono avere né la fortuna né le possibilità di vivere a Berlino, Parigi o New York. Io stesso alla fine degli anni Ottanta svoltai la mia vita professionale andando a vivere a Parigi, città cosmopolita dove ebbi modo di incontrare tanti musicisti del mondo quando in Italia le discussioni sulle migrazioni non erano ancora iniziate.
Da questo punto di vista il progetto di residenze internazionali AIR promosso da Midj è stato importantissimo perché ha dato l’opportunità a molti giovani di poter vivere per uno o due mesi in alcune capitali del mondo. Penso a Fabio Giachino che era andato in residenza a Copenaghen e che lì ha potuto non solo allacciare rapporti con ottimi musicisti locali ma anche registrare e produrre musica. La comunità del jazz vive dai contatti e questi si devono costruire giorno dopo giorno. Ho citato Fabio perché è stato il primo ma potrei citare Gabriele Mitelli, Alessandro Lanzoni, Alessio Zucca, Anais Drago, Stefano Carbonelli, Francesco Orio e tanti altri…”.
Una nuova idea progettuale su cui dovrebbe concentrarsi I-Jazz?
“I-Jazz sta già facendo un ottimo lavoro. Soprattutto per una progettualità molto ampia che tocca ambiti diversi della programmazione e del necessario bisogno di fare rete. Molte delle cose dette in questa intervista sono già in cammino e alcune in dirittura d’arrivo. Ad esempio il progetto dell’Export Office che nasce da un tavolo congiunto con Midj e ADEIDJ, l’incentivo al programmazione nel rispetto ambientale o l’International Jazz Day che vorremmo portare in Italia nel 2023 come Global Host. Da Presidente della Federazione posso sono auspicare che si possa dialogare sempre di più con gli altri soggetti che ne fanno parte, affinché la costruzione della casa del jazz sia più stabile ed eterogenea”.
Esiste un problema di doppio standard per l’industria musicale? Da un lato Sanremo che vuole andare in onda con il pubblico a tutti i costi, e dall’altro teatri e sale da concerto chiuse. Che idea ti sei fatto?
“La discussione su Sanremo è per me imbarazzante. Ma è ancora più imbarazzante che ci siano artisti che prendano le difensive di Sanremo da consumare con il pubblico in sala. Che questo sia di figuranti o di fidanzate e mogli poco cambia. Comprendo che Sanremo offra un’opportunità di lavoro in un momento così difficile, ma se i teatri sono chiusi da mesi debbono rimanere tutti chiusi e l’Ariston non è diverso.
Piuttosto discutiamo di come aprire i teatri in sicurezza visto che in tutta l’estate non ci sono stati casi di Covid né negli spazi all’esterno né all’interno. Perché si discute di chiese e di piste da sci ma non di luoghi d’arte e di spettacolo che possono peraltro contare su un pubblico di qualità e con senso di responsabilità.
Questo significherebbe ricreare occasioni di lavoro. E ricreare assumerebbe così un doppio significato…. Non quello di Conte della ricreazione con gli artisti che ci fanno divertire ma ricreare nel senso di offrire una nuova opportunità di arricchirci con l’arte. Perché questa ha dimostrato, se già non lo sapevamo, che la società non può farne a meno e che da anche da mangiare”.
ph: Roberto Manzi