Pubblicato il 07/01/2019
Catania Jazz compie 35 anni di attività, confermando, nella qualità costante dei suoi cartelloni, una propensione alla resistenza e una caparbietà quasi straordinaria. Le stesse caratteristiche che ritroviamo nel suo direttore artistico, Pompeo Benincasa, che abbiamo intervistato poco prima della fine del 2018 per tracciare insieme un bilancio e raccontare la sua visione del jazz italiano.
35 anni di Catania Jazz, sei uno dei direttori artistici più longevi d’Italia: come hai lavorato in questi anni e quali sono stati, a tuo avviso, i risultati più importanti che hai ottenuto?
A dire il vero non sono sempre stato direttore artistico della mia associazione, diciamo che lo sono stato per 27 dei 35 anni di Catania Jazz. La longevità è dovuta al fatto che per tenerla in vita, nonostante i numeri mostruosi da sempre, ho dato fondo a tutti i miei risparmi perché nel 2004 tutti i soci avevano deciso di chiudere. Tutti tranne il sottoscritto.
Cominciamo a vedere la fine del tunnel oggi, dopo 14 anni, tanta fatica e tanti soldi. Nonostante la nostra rassegna sia stata da sempre seconda solo a Umbria Jazz, per numero di spettatori e di incassi, dal 1983 non ha mai ricevuto un contributo dalle amministrazioni locali e il primo contributo ministeriale – di appena 10.000 euro – fu conquistato dopo 27 anni di domande andate a vuoto. E una volta ottenuto quel misero contributo abbiamo visto la drastica riduzione dell’unico contributo pubblico ricevuto sino al 2010, quello regionale.
Con bilanci che si sono sempre aggirati sui 400.000-500.000 euro chiunque può immaginare con quale fatica e con quanti debiti abbiamo continuato a fare attività con al massimo 30.000 euro di contribuzione pubblica. Siamo sopravvissuti anche grazie al fatto che non abbiamo alcun dipendente fisso, non abbiamo – da più di 15 anni – una sede, un telefono, un fax, non stampiamo alcun manifesto, non paghiamo alcuna pubblicità. Non potevamo permetterci nulla. Ma abbiamo poi scoperto che non ci serviva e non ci serve comunque: facciamo sempre sold-out.
Un cartellone ricco di nomi internazionali incredibili: da Mike Westbrook a James Brandon Lewis, Brian Blade, Michael Formanek, Tim Berne, John Patitucci solo per citarne alcuni, e molti giovani talenti italiani. Cosa ti ha guidato in queste scelte?
Concordo con il mio amico fraterno Adriano Pedini: come lui, non mi sento un direttore artistico che può decidere interamente i cartelloni secondo i propri gusti o una direzione precisa. Questo possono farlo, e spesso non lo fanno, quei festival che sanno in partenza di contare su risorse pubbliche notevoli e che non devono mai tenere conto del botteghino.
Il botteghino, invece, improntava di gran lunga le nostre scelte: costruivamo i cartelloni cercando di programmare gli artisti che avevano il miglior rapporto costi-incassi e devo confessare è andata quasi sempre nel miglior modo. Fino al 211 Catania Jazz si è svolta in un teatro di 1800 posti che, per 27 anni, ha condizionato le nostre scelte per ovvi motivi. Da quando abbiamo fatto altre scelte, siamo più liberi; abbiamo lasciato 700 abbonati e una media di 1400 spettatori a concerto, per ripiegare prima verso una sala congressi da 700 posti e un club da 200 posti (il MA di Catania) da noi ideato e lanciato. Tutto è cambiato quando, di fronte all’ennesima crisi economica, chiesi in prima persona un aiuto speciale al nostro pubblico, pena la chiusura di Catania Jazz, proponendo l’abbonamento alla stagione successiva con 10 mesi di anticipo, senza conoscere né programma né location, solo il numero di concerti. In cambio della loro fiducia incondizionata, offrivo una riduzione del prezzo. Il primo anno convincemmo 162 persone, la stagione dopo il numero raddoppiò sino al record annuale di 655 sui 750 totali.
Il successo di questa idea, “l’abbonamento al buio”, ha rivoluzionato in positivo la costruzione dei nostri cartelloni invertendo tutto: non abbiamo più bisogno dei grossi nomi da botteghino per riempire le sale, siamo noi che oggi offriamo agli artisti il sold-out del pubblico in teatro e ben quattro repliche alle bands che suonano al MA. Questo ha permesso di dare più spazio ai nuovi talenti, alle produzioni originali, agli artisti italiani e a quelli locali.
Siamo alla fine del 2018: un tuo personale bilancio annuale sia dal punto di vista artistico che di gestione del jazz italiano?
Penso che il jazz italiano abbia raggiunto ottimi risultati negli ultimi anni per aver compreso l’importanza del lavoro comune, sia degli organizzatori associati a I-Jazz che dei musicisti con MIdJ.
Personalmente guardo sempre a cosa si può fare di più e vedo una debolezza reale nel fare concretamente rete, cercando di programmare insieme, di produrre insieme. Sinora siamo stati più lobby che altro, con tutto il rispetto. E penso che non basti: le strutture che abbiamo messo su sono sempre più verticali, mentre gli obiettivi di cui parlo non possono prescindere da reti orizzontali alle quali va dato più spazio e più forza.
Ma tutto questo dipende da ciascuno di noi; guardo i cartelloni delle rassegne, da Bolzano alla Sicilia, e spesso mi rendo conto che programmiamo gli stessi artisti ma senza alcun coordinamento tra noi, fatta eccezione, nel nostro caso, per la cooperazione tra Catania Jazz e Fano Jazz Network per Westbrook, per esempio.
Temo che questo eccessivo individualismo rischi di far appassire le associazioni di rappresentanza degli organizzatori e dei musicisti. Spero che ci sia un cambio di rotta, anche perché il jazz sta vivendo un periodo di buona salute.
Quali saranno gli appuntamenti più importanti per Catania Jazz nel 2019?
La nostra stagione finisce a maggio, siamo già partiti per la settima stagione con gli abbonati al buio e se tutto va secondo le nostre previsioni forse nel 2019 Catania Jazz metterà su anche un festival estivo. Ma su questo non dico altro, per adesso è solo un’idea, se va in porto sarà all’altezza della nostra storia e del nostro gusto per l’azzardo, quindi non faremo copie di festival già esistenti in Italia.
Quale previsione ci lasci per il futuro del jazz italiano?
Come dicevo, il jazz italiano è in buona salute: cii sono musicisti e idee. Se continuiamo a lavorare insieme possiamo trovare le giuste formule per coinvolgere più pubblico giovanile ai nostri concerti. Credo sia necessario osare, rischiare qualcosa ed essere umili. A Catania abbiamo sperimentato tanto e qualche convinzione l’abbiamo maturata, mi piacerebbe che ci fossero momenti per una riflessione comune di tutti i soggetti che compongono la grande famiglia del jazz in Italia.